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La pittura alla carta di Vermeer

di Franco Farinelli

Mentre il Re Sole si apprestava a invitare a Parigi Gian Domenico Cassini per dare avvio alla costruzione della gran carta geometrica di Francia, quella con cui la faccia della Terra iniziò a diventare la copia di una mappa, l’arte olandese metteva in scena il trionfo della cartografia. Per André Malraux L’Arte della Pittura ovvero L’atelier di Jan Vermeer (1666-1667 circa) è forse «la suprema realizzazione tecnica al mondo». Qui riveliamo il segreto del suo fascino: essa illustra passo passo un compiuto sistema cognitivo, una specifica epistemologia, quella di Leibniz, e ne svela la natura intimamente cartografica. Scriverà Leibniz nel 1684, nelle sue Meditazioni sulla conoscenza, la verità, le idee, che la conoscenza è «oscura o chiara, quella chiara, a sua volta, è confusa o distinta, quella distinta è inadeguata o adeguata, e ancora, simbolica o intuitiva; e se è, al tempo stesso, adeguata e intuitiva, è perfettissima». Il quadro di Vermeer va letto in tal modo, termine a termine, procedendo in diagonale dall’ombra dell’angolo in basso a sinistra alla luce dello sfondo, secondo il tragitto che dall’oscurità e dalla confusione, dal fuscum subnigrum, va verso la chiarezza per progressive distinzioni.
Oscura per Leibniz è ogni nozione che non consente di riconoscere in pieno la cosa rappresentata, come le foglie ma anche la donna che il pittore sta dipingendo, e che s’intravedono, più al rovescio che al diritto, anche sul tendaggio che a Claudel ricordava, qui, i tessuti dell’antico tabernacolo. Chiara è al contrario la nozione che consente di riconoscere la cosa rappresentata. Essa è però confusa quando non si possono enunciare tutte le caratteristiche di cui quest’ultima si compone. Proprio questa, precisa Leibniz, è la conoscenza dei pittori, che spesso a chi li interroga non sanno dire altro che l’opera lascia a desiderare per un certo “non so che”. Sicché proprio alla conoscenza chiara e confusa corrisponde il fogliame che il pennello sta delineando sulla tela: si capisce che sono foglie d’alloro (quelle sul capo di Clio musa della storia e dell’oralità) ma non si capisce bene perché. La conoscenza chiara e distinta è invece quella, ad esempio, che gli esperti hanno dell’oro, perché sanno distinguerlo, attraverso analisi ed esami, da tutti i corpi simili. Essa coincide perciò con la possibilità di assegnare una “definizione nominale” a tutte le note sufficienti per la sua individuazione. Succede però che, nel caso di nozioni composte, alcune note possano essere conosciute in maniera chiara ma confusa: la conoscenza allora, sebbene distinta, risulterà inadeguata. È adeguata quando, all’opposto, tutto ciò che entra in una nozione distinta è a sua volta conosciuto distintamente (si direbbe: quando tutti i nomi sono nomi propri). Per gli uomini è difficile arrivarvi, aggiunge Leibniz, tuttavia con la conoscenza dei numeri le si avvicinano molto: è infatti una conoscenza simbolica, che entra in azione ogni volta che non riusciamo a intuire simultaneamente l’intera natura di una cosa, perché in tal caso la conoscenza sarebbe intuitiva. La conoscenza simbolica interviene quando non riusciamo a pensare tutte insieme le note che entrano in essa, e al posto delle cose ci serviamo così di segni. Come appunto nella rappresentazione cartografica, al cui interno, a farvi caso, tutti i nomi sono nomi propri: precisa esemplificazione, secondo il linguaggio della gnoseologia leibniziana, di conoscenza chiara, distinta, potenzialmente adeguata e simbolica. Non fosse simbolica ma intuitiva, sarebbe conoscenza non cartografica ma perfetta, cioè divina: non sarebbe una mappa, ma la mappa di tutte le mappe. Quella che soltanto l’occhio di Dio è in grado di vedere. Noi ci accontentiamo di vedere, sulla parete che conclude la stanza (stanza che è il ritratto della monade priva di finestre di cui Leibniz parla) la Carta delle Diciassette Province di cui i Paesi Bassi allora si componevano, pubblicata da Claes Jansz Visscher dopo il 1652: il culmine della forma di conoscenza allora data agli uomini.
Vermeer e Leibniz dicono, con simboli diversi, la stessa cosa, ma il primo muore nel 1675, quando Leibniz non ha nemmeno trent’anni. È il pittore che legge il filosofo (che però deve ancora scrivere) o il filosofo che s’ispira al quadro? Falso problema: come nel caso dei miti per Claude Lévi-Strauss, l’umanità esiste soltanto perché le mappe possano continuare a pensarsi tra loro.