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La memoria del pane

di Antonia Arslan​

Entro nella panetteria all’insegna dei “tre palikari”, piena di gente come sempre. C’è la signora greca che si mette a parlare velocissima alla ragazza che sta servendo, e così riesce a saltare la fila; c’è il distinto signore francese che vorrebbe farsi spiegare il contenuto dei vari fagottini di pasta fillo ripieni di cosuzze deliziose; c’è il gruppo vociante di giovanotti napoletani che comprano tutto e cercano di far sorridere la ragazza; c’è la kirìa, la padrona, che sovrintende e con un’occhiata dirige il traffico; e c’è infine, a dominare tutto, l’odore del pane appena sfornato, che inebria e rende lieti i cuori.
È forse un addio, questa stretta allo stomaco che mi prende, mentre gli occhi mi si offuscano improvvisamente? O è il ricordo del panettiere di Ghythion nel Mani, dove si andava ogni mattina a prendere il grande filone caldissimo, e una tazza del miele che lui teneva in una piccola botte col coperchio, in un angolo lontano dal forno sempre acceso? Era un omone grosso con una barba rispettabile, burbero come è giusto; ma quando gli chiedevi anche il miele, un sorriso leggero gli fioriva sul viso, dietro la gran barba, e afferrava il mestolino appoggiato sull’orlo con una delicata grazia, come sfiorandolo.
La casa era appoggiata alla collina: si entrava dall’ingresso di fronte al mare, e si usciva al quarto piano, in cima, dove passava la strada alta. All’altezza del secondo piano, un enorme frigorifero americano ronzava incessantemente: tutti ci mettevamo le nostre provviste, gli yogurt con la panna rappresa sopra, le vaschette di risògalo spruzzato di cannella, i pomodori, i meloni. E faceva davvero tanto caldo, o è solo il ricordo che ingigantisce le emozioni e le sensazioni di allora?
Questo panificio, in quest’isola ormai vandalizzata dai turisti, è l’ultimo che sembra tradizionale, e ha il suo bravo forno sempre acceso nel retro, anche se non è più la cavità oscura del Mani, dove la pala arroventata entrava e usciva di continuo, spinta dentro e tirata fuori dalle mani poderose del signor Dimitri, con un gesto fluido e potente che veniva da secoli lontani. E il pane aveva una sola forma, quella della pagnottona allungata dalla crosta dura, che affettandola sprigionava morbidi aromi.
Mi fermo sul bordo della strada, in un angolo riparato da una buganvillea rosso fuoco, e lascio che i ricordi scorrano. So dove arriveranno: ai versi del Canto del Pane di Varujan, che riemergono come da una fonte nascosta. E così – mentre davanti a me, sulla strada polverosa, scorre un traffico caotico di auto, motorette, furgoni, camion e camioncini, ogni possibile veicolo a motore – anche a me pare di sedermi «sull’aia, alla fresca ombra del salice» per cantare «il piacere, il vigore creatore / che diffonde il Pane, il Pane consacrato», e invoco come lui quella Musa incoronata di spighe che gli fu vicina negli ultimi giorni di vita.
Perché il pane è un simbolo così potente che ci tocca tutti, come un profumo che ritroviamo intatto dopo molto tempo, e ci restituisce una parte della nostra vita; ma è anche come una benedizione, di cui forse non siamo degni ma che è là, fedele, davanti a noi sulla tavola.
Pane, forma concreta di Dio, dice ancora Varujan: «In ciascuna delle spighe bianche di latte / maturerà domani una parte del corpo di Gesù...».