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La grande tenda sui monti

di Giovanni Lindo Ferretti​

È un dono. Paola l’ha fatta costruire e decorare, l’ha imballata e spedita dalla Mongolia. Mimmo e Luisa l’hanno pagata e fatta arrivare. Insieme abbiamo imparato a montarla e ora fa bella mostra di sé al margine del paese.
È una gher, la tenda dei Mongoli, prototipo dell’abitare dei nomadi nelle steppe dell’Asia. Sui nostri monti è corposa immagine dell’altro, della diversità nella similitudine. Consola lo sguardo, scalda il cuore, schiude pensieri che vogliono essere pensati in libertà, con limiti riconosciuti e accettati: storia e geografia innanzitutto poi pluralità e differenze, in una ricchezza irriducibile a unità se non nel conio: Adamo, e nello svelamento: l’Apocalisse. Timore, anche, per un progetto divino sempre a rischio nelle sole mani dell’uomo.
La gher è vuota, posata sulla nuda terra. Una struttura essenziale, nessun chiodo, nessun picchetto: tanti nodi, tante corde, legno per le pareti circolari a graticcio, decine di piccoli pali e due colonne a sorreggere la cupola, poi feltro e cotone ad avvolgere il tutto. Uno spazio che si direbbe costretto ma è rituale e apre all’infinito. Congiunzione potente in forma familiare domestica tra terra e cielo.
Grande è la confusione sotto il cielo. È uno slogan della Rivoluzione culturale cinese, l’avevo scritto sul muro della mia camera nell’estate di cinquant’anni fa, nello sbocciare tumultuoso dell’adolescenza, la scoperta della politica, l’irruzione della socialità. Trent’anni dopo, facendo di necessità qualche conto, avevo sintetizzato quella lunga stagione in poche parole: sciocca, stupida e di buoni sentimenti. Seduto al centro della gher mi sorprende come folgorazione e non riesco a liberarmene. È un pensiero che grava su ogni altro pensiero. Si nutre di forze primitive, di forme estetiche basilari, lo compatta un odore forte di selvatico e stallatico che connota l’energia primigenia. Considera il naturale ingegno dell’uomo, il suo operare e le imprese, le conquiste. Dal forzare i limiti al vanificarli. Dal riconoscersi creature all’improvvisarsi creatori. Questo il progetto che accomuna l’umanità nel tempo della tecnologia.
Non ci sono categorie politiche, etiche, in grado di impedirne e nemmeno arginarne la corsa. Un processo inarrestabile. Ne abbiamo i mezzi? Si può fare! E molto è stato fatto, più del lecito. Resta la clonazione dell’uomo, una soglia da traversare a cui tutto tende. Una nuova umanità. Dove non poté la religione, dove fallì miseramente l’ideologia, avanza una tecnologia parcellizzata, settoriale, specialistica, sedicente neutra se non medico-assistenziale nei proponimenti dichiarati, schierata e bellica in quelli secretati, ludica e commerciale per garantirne la diffusione capillare, la compartecipazione.
È già all’opera il partner indispensabile: una intelligenza artificiale progressiva e multiforme, apice del progresso come categoria dell’umano. La situazione è eccellente, per tornare al presidente Mao e completare la frase, oppure: certo le circostanze non sono favorevoli per citarmi in un ritornello?
Che il futuro ci appaia roseo o fosco questo è il nostro tempo, un tempo bastante alla salvezza o alla dannazione. Da una gher arrivata da lontano sale la lode al Creatore.