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PARTENZE 173

​Ritrovo, dopo anni, una vecchia antologia, e la sfoglio. Si apre a una pagina che è stata chiaramente molto letta, molto usata. C’è una poesia di Antonio Machado, un grande poeta spagnolo: ma non è uno dei miei amati, non so molto di lui, non mi arriva dal cuore nessuna emozione, né un fluire di versi nella memoria. E allora leggo la poesia, quasi distrattamente, e subito sento un rintocco lontano, come di un ricordo sepolto. E mi viene in mente il Lamento per Ignacio Sánchez Mejías, la famosa ballata di Lorca in morte dell’amico torero, col suo ritornello ossessivo, “alle cinque della sera”, che ascoltavamo commossi ed esaltati in un disco, tantissimi anni fa. La delicata, sofferta lirica di Machado viene però da un’altra, più sommessa, sensibilità, che tuttavia è pur sempre spagnola: la contiguità con la morte, presenza arcaica e in qualche modo materna, non amichevole ma neppure estranea, austeramente famigliare, alla quale si deve rispetto e ci si deve inchinare.
Racconta una specie di quieto addio alla vita, di partenza definitiva in una notte d’estate: tre personaggi, il poeta, la sua amata e la morte, che con passo lieve entra nella casa aperta alla brezza della sera (e il poeta insiste che la finestra è spalancata, come anche la porta, è tutta la casa che accoglie l’ospite...): si avvicina al letto dove giace la donna, e “con dita delicate” taglia qualcosa, il filo della vita che la unisce all’amato. E poi silenziosa gli passa davanti senza guardarsi intorno, né gli risponde quando lui le chiede “cosa hai fatto?”. Sembra dormire, tranquilla, la giovane donna, ma in realtà è andata via con la morte: e il filo spezzato è la vita, ma anche l’unione degli amanti.

Il cuore di lui è colmo di angoscia, eppure la scena sembra piena di pietà rispettosa, di malinconica rassegnazione: una dolente contemplazione dell’inevitabile, lo sfiorarsi del mortale e dell’immortale nel momento del passaggio, della partenza finale. E adesso sì che mi vengono in mente, tumultuosi, altri versi di Lorca, quelli della Canzone di cavaliere, giovane e scanzonato, eppure sempre consapevole della presenza della Mietitrice con la falce lucente, tranquilla, inesorabile, che lo spia dalle mura di Cordova, e lo aspetta, apparizione silenziosa ma non minacciosa: «Cavallina nera, luna grande / e olive nella mia bisaccia. / Anche se conosco le strade / io mai arriverò a Cordova. // Per il piano, per il vento / cavallina nera, luna rossa. / La morte mi sta spiando / dietro le torri di Cordova». E finisce col nome della città che, ripetuto, rintocca come una campana a martello e sfuma nella lontananza irraggiungibile di un miraggio: «Ah, che lungo cammino! / Ah, la mia brava cavallina! / Ah, che la morte mi aspetta / prima di giungere a Cordova! // Cordova / lontana e sola»

di Antonia Arslan