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L'orologio

Dopo tanti anni, dal fondo della mia biblioteca ricompaiono i racconti di Katherine Mansfield. Li sfilo dallo scaffale. La carta è leggera ma resistente, delicata; la rilegatura robusta, elegante, con lievi disegni. C’è una dedica per il mio compleanno, il 30 di aprile. Mi si affaccia improvviso un ricordo concreto, quasi un sapore, di quando li leggevo in certi pomeriggi d’estate, e alla fine di ogni racconto non avevo commenti da fare, solo sprofondavo in ammirati pensieri.
Infilato vicino, c’è l’esile libretto delle poesie. Poche, e poco conosciute; e non mi pare di ricordarle. Eppure so che qualcosa mi chiama verso un incontro. Infatti, ecco una pagina segnata, e una traduzione scritta a macchina infilata in mezzo. Si chiama proprio The Meeting, “L’incontro”. E la traduzione è mia.

È la storia del doloroso commiato definitivo fra due amanti: e improvvisamente tutto mi torna in mente, e ricordo che quando la lessi trovai che la poesia parlava anche di me – di un mio personale commiato, di un viaggio che mi portò lontano: la rilessi un’infinità di volte, la feci mia, la tradussi. Come succede alla grande poesia, è formata di frasi semplici, a volte quotidiane, ma che si incidono nel cuore per sempre. Hanno un ritmo definitivo, una musica interna collegata a una tensione altissima, incandescente: dopo che l’hai letta, risuona, ancora e ancora, nei tuoi sensi, nella tua mente.

«Cominciammo a parlare / fissandoci, e poi voltandoci. / Le lacrime continuavano a salirmi agli occhi/ ma non potevo piangere. / Volevo prendere la tua mano / ma la mia mano tremava. / Continuavi a contare i giorni / prima del nostro prossimo incontro. / Ma sentivamo entrambi nel cuore / che ci eravamo separati, per sempre e per sempre.» Mi si riempirono di lacrime gli occhi, e risentivo il freddo di quella stanza, l’orribile sensazione di un vuoto che si espandeva oltre i confini della mente, fino a quel viaggio febbricitante e desolato. Non sarebbe più ritornata in Nuova Zelanda, la fragile, geniale Katherine, che andava verso l’intensa vita letteraria della Londra degli anni Venti: e tuttavia, quell’addio le incise a fuoco nella mente la nostalgia del luogo natio, dei personaggi della sua infanzia e del calore del focolare perduto che saranno alla base della straordinaria atmosfera dei suoi racconti.

Ma l’addio dei cuori avveniva in un non-luogo, ed era ritmato da un impassibile orologio, indifferente all’umana pena, sensibile solo al Tempo sovrano. Nei versi successivi infatti solo il ticchettio di una pendola rende tollerabile il vuoto: «Il ticchettio dell’orologio riempiva la stanza silenziosa. / Mi stringesti fra le braccia. / Il suono dell’orologio si affievolì, divenne un niente. / Io sussurrai nell’oscurità: Se si ferma, io morirò.»

di Antonia Arslan