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Il dono semplice e grandioso dell’amicizia

​di Antonia Arslan

Pomeriggio del 23 dicembre, antivigilia di Natale. Buio precoce, bruma, freddo. Il treno per Verona è puntuale, l’amica Emma anche, ma io sono un po’ infreddolita, un po’ stanca. Vorrei essere a casa, di fronte a un bel tè caldo, con le mani strette intorno alla mia tazza preferita, quella con l’ippopotamo pensieroso: e lasciar vagare i pensieri verso la fine dell’anno. Mi piace assaporare la settimana fra Natale e Capodanno come gustandola al rallentatore, vedendo poca gente, leggendo a caso, senza intenzioni di scrittura, senza impegni particolari.
Andiamo di paese in paese. Passano i minuti, Emma guida con perizia, e ci stiamo avvicinando alla meta. Comincia a parlarmi di quello che lei vede con gli occhi del cuore: l’Adige che scorre vicino, la fitta campagna intorno, i suoi ricordi di bambina, la famiglia di amici cui appartiene la piccola chiesa antichissima verso la quale siamo diretti, la pieve di Santa Maria della Ciusara, nei pressi di Bonavigo, nella Bassa Veronese.
A un certo punto svoltiamo su una strada di campagna fra gli alberi, ed ecco apparire delle luci: sono fiaccole che ardono nella nebbia sul piccolo sagrato dove si muovono persone intabarrate con scialli pesanti e berrettoni calcati in testa. Tutti si salutano oscillando come goffi pupazzi e poi si avviano verso il portone che si apre al centro della facciata, scabra e compatta, i cui contorni sfumano nell’oscurità. Dentro, uno straordinario presepio, con tanti visi che contemplano il Bambino affacciandosi da finestrelle ricavate sulle pareti, e tanta gente. Dietro, ai lati dell’altare, immobili santi bizantini sorvegliano con grandi occhi spalancati. Ci scaldiamo parlando, e ci nasce dentro un sorriso estasiato, una voglia di camminare oltre il buio, di riaccendere – ognuno – la sua luce: che stasera, penso, si intreccia con tutte le altre.
È stata una serata di luce, una serata di doni. E poi c’è stata anche una cena, piena di calore e di colori intorno a una tavola quadrata, con la tovaglia di fiandra, buon vino e posate scintillanti. Il freddo scomparve davanti a una minestra del paradiso che sorbimmo in silenzio, con gratitudine e commozione: mangiare insieme in serenità è un atto di fiducia, di purezza antica. E io quella sera ritornai all’infanzia, agli zii di Lendinara che non bevevano il caffè nelle tazze, come tutti noi, ma nelle chicchere, col ditino alzato. Li prendevamo in giro, ma il loro zabaione era un altro cibo del paradiso...
Un rito di amicizia e di attesa. Tre generazioni c’erano, discendenti dal patriarca Ferdinando Mutti, il geniale agricoltore che fu un pioniere della battaglia contro la fillossera, l’insetto maligno che negli ultimi decenni dell’Ottocento si diffuse in tutta l’Europa e quasi distrusse la viticoltura italiana. Un combattente – mi immaginai guardando i visi attorno al tavolo – dovette essere questo bisnonno che inviava in tutta Italia le barbatelle e i vitigni resistenti alla malattia; e mi divertii a leggere, appesi alle pareti, i disegni che illustravano le nuove piantine, i premi e riconoscimenti ottenuti nelle fiere e nelle esposizioni, nel linguaggio dell’epoca, che riportava vividamente alla memoria gli echi di quel mondo laborioso e coraggioso dei nostri antenati, della loro fatica e della loro fiducia in Dio e negli uomini.