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Il cerchio incantato, tra un bisticcio e un caffè

di Antonia Arslan​

Ci sono amici che conosci da sempre, che ti accompagnano per tutta la vita, dai banchi di scuola, come si dice. Con loro si può stare per lunghi intervalli di tempo senza vedersi; si può vivere in luoghi anche molto lontani, e poi basta un incontro, perfino a un funerale: dopo poche frasi generiche i ricordi fluiscono con torrenti di parole, persone e memorie si ripresentano con immagini inaspettate e vivide, accavallandosi, e il sentimento antico ricompare fresco e attraente. L’amicizia è lì, come se non se ne fosse mai andata; e il futuro si stende ancora davanti a noi, pieno di promesse.
E poi ci sono tutti gli altri – amici e amiche - quelli che incontri a un certo punto della vita, quelli che ti scegli, e che diventano presto così indispensabili che non puoi più immaginarti privo dell’acuto piacere che ti dà la loro compagnia. Per chiacchierare, discutere, condividere pensieri e idee; ma anche per appassionarsi insieme a collezionare qualcosa, a detestare qualcuno, a spartire il cibo: una gioiosa realtà che da sempre costituisce uno dei più importanti ed essenziali legami fra gli esseri umani.
Tuttavia, molti di questi pur caldi incontri sbiadiscono presto; non si trova il tempo – o non se ne ha davvero voglia – per approfondire, non si capisce che provare amicizia vuol dire, dopo il primo riconoscimento di affinità, esercitare pazienza: nel tessere i tanti fili della conoscenza, dello star bene l’uno in compagnia dell’altro, nella consapevolezza - senza timidezza o imbarazzo - di aver bisogno dell’altro. Solo alcuni resistono, si ampliano, toccano nuovi orizzonti, e diventano un balsamo per l’anima stanca.
Un pomeriggio di un qualsiasi giorno invernale mia nipote, che veniva spesso nel mio studio per farsi dare una mano, mi diede il biglietto da visita di un suo compagno di nome Dario, che voleva conoscermi. Quando lo incontrai, qualche tempo dopo, ci fu un’immediata simpatia, favorita dalla comune origine armena, dal ricordo dei nonni e delle famiglione orientali, da quella nostalgia sottile di un passato irrevocabilmente oscurato dalla ferocia e dalla persecuzione; e poi dal riscatto coraggioso in terra italiana e dal condiviso desiderio di entrare in quella dimensione della “patria perduta” che – a cominciare dalla lingua – ci era preclusa. Cominciammo a parlare di zii e di zie un po’ strambi, di foto dell’inizio del ‘900, di lettere da decifrare, di cugini sparsi nel mondo. Trovammo ben presto una grande affinità di parole e di pensieri, e un grande divertimento nella reciproca compagnia.
Fu in quegli anni che io scoprii la poesia di Daniel Varujan, il grande poeta ucciso nel 1915, all’inizio del genocidio, e mi buttai ossessivamente nella traduzione del suo Canto del Pane. Intanto l’amicizia con Dario fioriva e si irrobustiva, aprendosi a tante altre dimensioni e a una conoscenza più sottile e profonda. Lui divenne amico anche del mio Paolo, con cui scopriva piccole meraviglie e parlava per ore, e pian piano diventò una presenza costante che ci integrava e arricchiva. Veniva spesso a prendere con noi un caffè alle cinque, e assisteva ai nostri animati bisticci, sorridendo appena, lieto di esserci. E oggi, che Paolo se n’è andato, Dario mi racconta le loro chiacchiere, e io mi sento ancora immersa nel cerchio incantato dell’amicizia.