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Fantasmi antichi e rinascite occitane

​Mi giungevano, in quel pomeriggio di giugno, come dietro un velo variopinto e attraente, i suoni della lingua occitana, quella che si parla nelle alte valli del Piemonte occidentale così come nella Guascogna e nel Limosino. I confini degli stati moderni non vogliono dire nulla per i montanari delle Alpi, abituati ai grandi ostacoli fisici da valicare, non alle sbarre dei confini umani. Era una lingua quasi perduta, la loro. Come mi dissero lassù, nel bel borgo di Ostana: «Almeno gli armeni non hanno mai dimenticato il nome della loro lingua; noi, al paese, la chiamavamo “la lingua di noialtri”, come un umile dialetto contadino, e non sapevamo più le sue nobili origini e le sue splendide, antiche tradizioni…».
Era un comune moribondo, Ostana. E invece oggi rifiorisce di una cultura rinata, di gente che vi abita, di calore umano, di cibo condiviso, fino alla grande festa di un premio dedicato alle “scritture in lingua madre”: voci che si spengono, lingue che sono minacciate di estinzione. Quest’anno ci sono andata. Nella lunga valle serpeggiano e si intrecciano tanti suoni diversi, scivolano lungo la strada, lambiscono le vecchie case, finché in un magico istante si compone una nuova misteriosa lingua, in cui ogni parola è come un petalo, una lieve barchetta che naviga sul mare di una misteriosa comprensione.
Una donna sapiente mi ha descritto l’angoscia di quella lenta malattia che è perdere – un pezzo alla volta – la lingua in cui si è cresciuti: e ho capito improvvisamente quanto un simile pauroso impoverimento stia capitando anche all’italiano, vittima di assurdi neologismi inglesizzanti che sembrano vestirlo di piume moderne, perline di inutile chincaglieria.
In quei giorni mi sono come immersa in una danza affettuosa che tutti ci ha coinvolti. Chi è davvero Niillas Holmberg il sami, lappone dell’estremo Nord dal furbo sorriso nel viso rotondo di bambino appena cresciuto, sotto i capelli lisci e gli occhi un po’ a mandorla? Poeta, musicista, attore, canta le sue melopee quasi avvolgendosi in esse, facendosene cullare come da una ninnananna incantata, e il pubblico comincia a ripetere con lui quelle poche oscure sillabe, come mangiando un cibo prezioso offerto da dèi benevoli: ma nel viso rotondo di bambino appena un poco cresciuto la sua poesia è alta e matura, e distilla saggezza. E Jun Tiburcio il messicano, dell’antica lingua dei tutunakù, il piccolo folletto che appariva e spariva col sombrero in testa, pronto a cantare e a poetare l’umile forza del suo popolo e la gioia della bellezza del colibrì? Molto li avrebbe capiti Daniel Varujan l’armeno, che morì fra le prime vittime nel 1915, avendo in tasca come ultimo viatico Il canto del pane, la splendida elegia contadina della sua lingua e della sua terra.

di Antonia Arslan