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Eladio Dieste la leggerezza del mattone

​Nel maggio del 1988 a Medellin (Colombia), dopo un incontro con gli architetti della città, un distinto signore mi chiese di poter mostrare le sue architetture poiché, disse, anch’egli «costruiva con i laterizi». Gli architetti presenti non conoscevano chi fosse quel misterioso personaggio ma concordammo un incontro qualche ora dopo, prima di cena. Ancora oggi ricordo l’emozione provata di fronte alle immagini proiettate da Eladio Dieste (Artigas, 1917 - Montevideo, 2000) e ai commenti espressi con naturale modestia.
Dopo quel sorprendente incontro ho trovato tempo e modo di conoscere e apprezzare le sue straordinarie architetture, che parlano di raffinate tecniche strutturali e affascinanti intuizioni, nelle quali l’architetto ha conciliato il suo sapere con un costante impegno sociale verso il proprio Paese.
I suoi progetti nello studio di Montevideo, che potevano riguardare silos per il grano, capannoni industriali, mercati e chiese, erano costantemente relazionati all’impresa di costruzione Dieste e Montañez, alla ricerca di soluzioni strutturali semplici ed economiche. A questo proposito ricordo ancora una discussione riguardo una tessitura muraria “traforata” con mattoni alternati; a commento dei miei apprezzamenti sul risultato estetico, Dieste osservò prosaicamente: «Ogni foro realizzato è un mattone risparmiato!».
Il tema dello spazio ecclesiale – affrontato per la prima volta con la chiesa di Atlantida (1955-1960), caratterizzata dalle affascinanti pareti ondulate di laterizio che disegnano immagini sorprendenti, di grande forza espressiva – è sempre stato di grande interesse per l’architetto uruguayano.
Ora vorrei soffermarmi sulla chiesa di Durazno – una cittadina nell’entroterra dell’Uruguay – costruita in sostituzione di quella andata distrutta in un incendio. La chiesa di San Pedro (1967-1971) presenta un’architettura sorprendente con soluzioni strutturali coraggiose e una disarmante semplicità. L’intervento di Dieste ricalca la tipologia tradizionale dell’edificio a tre navate, con un linguaggio colto e di rara intensità. Le nuove invenzioni valorizzano le tecniche dei materiali utilizzati (travi-pareti in cemento e laterizi precompressi) e nel contempo compongono un’inedita spazialità per recepire le indicazioni liturgiche emanate dal Concilio Vaticano II: nella navata centrale vengono eliminate le primitive colonne e lo spazio assembleare diviene unitario. Ma è soprattutto la chiarezza espressiva delle soluzioni strutturali adottate che conferisce allo spazio un’immagine ecclesiale nuova ma attenta a una storia millenaria che ci appartiene.
La semplicità delle differenti parti dell’involucro ricorda la severità e il rigore delle chiese romaniche. La copertura a capanna della navata centrale – rialzata rispetto alle mura perimetrali d’appoggio – sembra letteralmente “volare” su fasce orizzontali di luce, quasi fosse una struttura autonoma.
L’abside, che si configura anche come presbiterio, s’innalza poligonale sul fondo come un solido primario, mentre una forte luce inonda le pareti fino all’altare sottostante.
Nell’autonomia formale delle differenti parti, il laterizio di cotto ricompone un’unità cromatica apparentemente negata dalle strutture. Lo spazio dell’aula presenta un’ulteriore sorpresa grazie al disegno di un “rosone” scultoreo composto da cinque esagoni concentrici. La spazialità elementare dell’aula, con la luce generata da due sole fonti contrapposte (presbiterio e rosone) definisce un’inedita sacralità.
Costruire in laterizio armato esige un percorso appropriato che conferisce dignità ai materiali e riconosce loro una grande forza, un modo – come dice Eladio Dieste – per «dare fedeltà alle leggi della materia... L’architettura concepita in questo modo è poesia: si dice che non tutti siano capaci di farla, ma tutti ne hanno bisogno».

di Mario Botta