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Eero Saarinen e la ricerca di un modello

​L‘architetto Eero Saarinen (1910-1961), nato in Finlandia e approdato giovanissimo negli Stati Uniti, è certamente da annoverare fra i grandi protagonisti dell’architettura del Novecento. Figlio d’arte (il padre Eliel firma la stazione ferroviaria di Helsinki), vanta un curriculum professionale impressionante, con incarichi e realizzazioni che spaziano dagli oggetti di industrial design (ancora oggi fra i più belli del mercato di settore) fino al terminal della Twa nell’aeroporto John F. Kennedy a New York.
La sua ricerca progettuale interpreta con intelligenza e intuito le attese e le trasformazioni della società occidentale nella seconda metà del XX secolo. Il suo linguaggio, libero rispetto al passato, influenzerà poi le ricerche e le tendenze delle generazioni future.
Saarinen, nel suo generoso e fortunato impegno disciplinare, crea forme espressive originali: partendo dalle potenzialità tecnico-strutturali dei nuovi materiali (ferro e cemento) approda a inediti risultati d’immagine che introducono ruoli, significati e valori fino ad allora poco indagati dalla cultura moderna. La riconoscibilità di un’opera diviene componente importante di messaggi e di valori non più marginali dentro il processo progettuale. In questa accezione mi sembra appropriata la definizione che è stata data di Saarinen come “il primo degli architetti contemporanei”.
La North Christian Church a Columbus, in Indiana, è preceduta da altre esperienze nella progettazione di edifici di culto, che l’architetto ha sempre interpretato con talento e grande sensibilità. Voglio ricordare l’essenzialità affascinante della cappella Kresge (1950-1955) nel campus del Mit, a Cambridge, in Massachusetts, dove nella copertura del cilindro di mattoni di cotto si apre un lucernario che irradia di luce zenitale l’altare sottostante; una scelta architettonica semplice che qualifica con poesia lo spazio teso fra la terra e il cielo.
Nella chiesa di Columbus, la perentorietà scultorea di un gesto iconico primario unifica la pluralità degli elementi che la compongono. All’esterno il tempio appare unicamente come un tetto piramidale tronco a base esagonale sul quale, alla confluenza dei sei costoloni che separano le falde, si eleva una cuspide acutissima, segno del centro geometrico della composizione e, nel contempo, “memoria” di un ormai improbabile campanile.
La chiesa vera e propria, configurata dall’area esagonale parzialmente interrata, resta staccata dal tetto da una fessura orizzontale di luce che la separa dalla gronda. Lo stacco fra lo zoccolo di base e il tetto è la chiave di volta formale fra le due parti dell’edificio, quasi che la copertura fosse un “coperchio” della struttura di base modellata nel terreno stesso. L’organizzazione interna dello spazio ecclesiale non è fruibile dall’esterno se non parzialmente e configura un’aula assembleare a pianta centrale con linee di banchi concentrici a gradoni, che lasciano al centro un ampio spazio che funge da presbiterio con i differenti arredi liturgici: altare, ambone, sedia…
Devo riconoscere che l’interesse e nel contempo anche il limite di questa tipologia fortemente teatrale (per l’intenso rapporto spaziale che si stabilisce fra il celebrante e i fruitori) sta nel rigore geometrico del tracciato, al di là dei possibili inconvenienti che possono derivare alle funzioni liturgiche.
Architettonicamente, tutto sembra subordinato alla rigorosa matrice geometrica – perseguita dall’architetto con disinvoltura – fra l’impianto planimetrico e gli aspetti distributivi. Questa distinzione evidenzia differenti parti della chiesa: lo zoccolo con i banchi concentrici e la bellezza della copertura che, all’interno, svela la ripartizione esagonale del tetto. L’insistere su una tipologia concentrica con la centralità del presbiterio e dell’altare può anche essere visto come un modello radicale ma anche possibile. La forte iconicità di questa proposta è certamente un valore distintivo che, pur a distanza di oltre mezzo secolo, si apprezza nel confronto tra la “Babele” dei linguaggi (tutti intercambiabili) che assillano e talvolta mortificano gran parte dell’architettura contemporanea e l’essenzialità di un impianto semplice e preciso.

di Mario Botta