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E la carta interpretò se stessa

Franco Farinelli

​Nell’autunno dell’anno 1500 Anton Kolb, mercante tedesco, pubblica una veduta di Venezia (una xilografia oggi attribuita non più a Dürer, come da tradizione, ma a Jacopo de’ Barbari ) le cui dimensioni – ottenute dalla composizione di sei distinti, giustapponibili legni – equivalgono a quelle di un telero o di un quadro da cavalletto: poco meno di un metro e mezzo d’altezza per più del doppio in lunghezza. Veduta di Venezia a volo d’uccello è il nome con cui essa è nota nella storia della cartografia, al cui interno gode di un ruolo davvero straordinario. Prima di tale opera, le vedute urbane erano soltanto allusive, nel senso che o erano quasi del tutto immaginarie, come nelle vignette che ornavano le quattrocentesche cronache universali, oppure funzionavano da generico sfondo per la rappresentazione di un evento storico, per l’illustrazione di un racconto: prima della metà del Cinquecento non esiste nessuna immagine pensata e realizzata all’unico scopo di riprodurre fedelmente i tratti di una città, per tracciarne l’anatomia.
Non lo fa nemmeno la Venezia di De’ Barbari, il quale nel ritrarre la propria patria mette il realismo della descrizione esatta e minuta (Jürgen Schulz parla di «naturalismo quasi ossessivo») al servizio di una funzione morale e seduttiva al tempo stesso: la celebrazione del trionfo di una comunità che ha la coscienza di essere la prima potenza marittima e commerciale europea. E che perciò include al suo interno anche divinità come Nettuno e Mercurio, oltre al Leone di San Marco, in una sorta di “metafora visiva” (ancora Schulz) che fonde le forme artistiche e i dati scientifici, astratto e concreto, quel che è sacro e quel che è profano. Come diceva Wittgenstein a proposito della matematica: «Un insieme di tecniche di dimostrazione».
Resta il problema del volo d’uccello, la particolare espressione con cui nella storiografia cartografica si designano le immagini il cui punto di vista risponde, come in questo caso, a un angolo inferiore a novanta gradi (“a vista cavaliera”, cioè come quella di chi va a cavallo, si dice quando tale angolo è di poco superiore allo zero). Ossia: dov’è lo spettatore? E chi è? Si tratta di un problema non cartografico ma filosofico. Ponendolo, il ritratto veneziano di De’ Barbari rappresenta uno stadio decisivo di quella “ascesa intramondana” che per Max Weber costituisce il terreno d’incontro e anzi la sorgente dell’etica protestante e insieme dello spirito capitalistico, vale a dire di una razionalità e insieme di una fede fondate sulla «congiunzione della credenza in norme incondizionatamente valide con un determinismo assoluto e una completa trascendenza del sovrasensibile». La veduta di De’ Barbari non arriva davvero a questo ma vi si accosta molto, sapientemente bilanciata com’è tra la mimesi e la significazione, i due poli della teologia luterana dell’immagine: da un lato somiglia a Venezia, dall’altro la rappresenta nel senso che la significa e perciò dice di più di tale somiglianza. Essa si regge su un equilibrio (una distanza) tra soggetto e oggetto, più che tra arte e scienza, che in tale forma mai più si riprodurrà.
A dispetto della ricchezza dei particolari, il ritratto illustra in maniera definitiva proprio quel che non si vede, segna il punto di non ritorno dell’ascesi del soggetto stesso che, sparendo ormai per sempre dal disegno, si ritrae dal piano della consustanzialità che fino ad allora aveva caratterizzato il suo rapporto con l’oggetto della rappresentazione. Ma non perché le piante prospettiche e scenografiche del Cinquecento volevano mostrare tutto richiamandosi al vero, e per farlo dovevano poggiare sul nulla, sulla più irreale delle convenzioni, vale a dire che l’uomo potesse volare. Al contrario, il carattere “non umano” del punto di vista, l’implausibile collocazione dello spettatore rispetto alla scena vogliono qui dire, a dispetto delle apparenze, che non vi è più nessun posto per nessuna interpretazione, perché ormai la scrittura cartografica, autonomizzandosi da ogni testo e da ogni riferimento allo sguardo umano, si avvia a divenire interprete di se stessa: tra la parola e la cosa, tra Venezia e la forma urbana sottostante vi è una sola possibile relazione, che in virtù del carico mimetico della figura è specifica e irriducibile a tutte le altre possibili. Scriptura interpres sui ipsius, la Scrittura è interprete di se stessa, come appunto voleva Lutero a proposito di quella sacra. Proprio tale autointerpretazione dell’immagine cartografica sarà alla base della moderna oggettività. Anche se l’abbiamo dimenticato.