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Donatello e il dramma del Risorto

​La Resurrezione è un evento glorioso e come tale lo hanno sempre rappresentato gli artisti nella tradizione iconografica cristiana. Si rovescia la pietra del sepolcro, fuggono terrorizzati i soldati custodi, oppure cadono al suolo sgomenti di fronte alla mirifica visione. La natura splende sotto il sole perché è primavera. Infatti la Resurrezione è “renovatio mundi” e la natura che si rinnova e fiorisce dopo il gelo dell’inverno, è figura di quel prodigio. Da Giovanni Bellini a Tiziano, dal Beato Angelico a Pontormo, da Rubens a Rembrandt, questa è sempre stata la Resurrezione nell’immaginario dei credenti e nella visione degli artisti.
C’è un’eccezione però: un’eccezione che si colloca al vertice dell’arte che i manuali chiamano del Rinascimento. Mi riferisco a una immagine della Resurrezione che contraddice tutti gli stereotipi, che parla di un evento dolente e malinconico, carico di sofferenza e di angoscia. Per conoscere questo unicum nel panorama dell’arte italiana bisogna entrare nella basilica di San Lorenzo a Firenze. Il luogo di culto, fondato e consacrato da sant’Ambrogio quando la romana Florentia era ancora in buona parte pagana, sta alle origini della storia cristiana della città moderna, assumendo un ruolo nei secoli sempre più importante fino a diventare parrocchia e poi chiesa palatina della famiglia Medici. Ebbene, entrate in San Lorenzo e fermatevi di fronte ai pulpiti che Donatello modellò, fuse in bronzo e cesellò negli anni (1461-66) in cui era signore della città Cosimo de’ Medici il Vecchio, “padre della patria” come lo definivano gli intellettuali encomiasti.
Donatello, a quel tempo, è un uomo vecchio, ormai più che settantenne, già toccato dal Parkinson. Soffre infatti del “parletico” di cui parla Giorgio Vasari nella Vita dello scultore. Eppure, nonostante l’età avanzata, nonostante gli impedimenti della malattia, Donatello, in San Lorenzo, nei suoi anni tardi, realizza il capolavoro assoluto dell’intera carriera. Questo ciclo grandioso con gli episodi della Passione dovremmo chiamarlo, per originalità di contenuti e per profondità concettuale, “Morte e Resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Donatello”, quasi fosse un nuovo Vangelo da aggiungere a quelli canonici. Quando si parla di prescrizioni iconografiche esterne nelle opere dell’antica arte sacra, di controllo dogmatico dell’autorità religiosa sull’espressione figurativa, si osservino i rilievi bronzei di Donatello nei pulpiti di San Lorenzo e si dica se si può essere più liberi (e più trasgressivi) di così.
Nel pulpito collocato a destra della navata, è rappresentata la Resurrezione, apice di tutto il percorso narrativo. Vediamo come ce la racconta Donatello. Cristo emerge faticosamente dal sepolcro, appoggiandosi al vessillo crociato, come se salisse una scala dolorosa che ha origine nel buio abisso della morte. È ancora avvolto nelle bende del sudario. È carico di morte nel corpo rattrappito, nel volto spento e come trasognato. È come rappreso nella morte dalla quale tuttavia sta uscendo come per compiere un penoso dovere. Quello che impressiona è il senso di fatalità e insieme di fatica che esprime il volto di questo tragico Risorto. Non c’è traccia di gloria nella Resurrezione di Donatello. Il suo Cristo (scrisse una volta il grande storico dell’arte John Pope Hennessy, con una bella immagine che si spiega bene negli anni del dopoguerra) è simile «a un pover’uomo che esce da un campo di concentramento». Il Cristo che lascia il sepolcro in modo quasi furtivo, oppresso dalla miseria della umana condizione, così dolente e desolato che lo diresti dubitare dell’utilità del suo risorgere eppure a ciò costretto da un amore che forse nessuno merita fra i viventi, ci fa bene intendere la religiosità pessimistica dello scultore, la sua visione altamente drammatica della storia della Salvezza.

di Antonio Paolucci