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Dentro la torre di Babele

di Giovanni Lindo Ferretti​

Vivo nella stessa casa in cui ha vissuto, nei secoli, la mia famiglia. Venerabile dimora per me: rifugio, laboratorio di idee, officina di relazioni operative. Tutto intorno case ristrutturate e chiuse. Porte, portoni e scuri sprangati. Un paesaggio immobile di bellezza struggente. Un microcosmo affacciato sul tempo. Muovendomi da una stanza all’altra, le finestre aperte mi sorprendono, regalandomi, incastonate tra mura domestiche come perfetta cornice, immagini che sembrano riproduzioni di particolari, a volte interi quadri, della grande pittura italiana. Due mi hanno allietato nel tempo della neve e delle nebbie, poi sono scomparsi ma posso ritrovarli a Bologna, al museo Morandi. Vivo uno spazio che somma le generazioni succedute ed evidenzia il mutare del tempo. Sì, le cose sono mutate e, con accelerazioni improvvise, tutto si sta sgretolando. Non c’è argine che tenga e mi capita di pensare che troppi interventi volti a limitare questa immane frana, altro non facciano che accelerarne i tempi. Ne deriva un senso di impotenza contagioso e sereno.
Lo stesso uso delle parole conferma una frattura, nel quotidiano e nell’immaginario, irrimediabile.
Paesaggio, ad esempio, è un vocabolo di cui forse abuso, denota un rapporto con la terra e il cielo incomprensibile e inimmaginabile per coloro che mi hanno preceduto. Definisce uno sguardo essenzialmente estetico. Lo sguardo tradizionale contemplava orti, seminativi, prati a pascolo, boschi da frutto o da legnatico, usi civici. Una fruizione materica, storica ed economica, vitale per uomini e animali. Un patrimonio da conservare e difendere in un ordine cosmico che sanciva il lecito, l’illecito, l’auspicabile e il deprecabile. Capace di coglierne la bellezza ma inscindibile dalla dimensione tragica del vivere. Lo sguardo contemporaneo, al di là della fruizione estetica, indaga una tabula rasa, landa spaesata, bisognosa di investimenti tra speculazione e valorizzazione. Incapace di contemplazione: creazione è parola in disuso, al limite dell’ammissibile. Uno sguardo sradicato dalla storia, dalla geografia, dalla realtà concreta.
Da un lato è la fine di un mondo, di una civiltà, al contempo è il presupposto su cui si sta edificando il nuovo e siamo in fase avanzata, di collaudo operativo. Il virtuale deborda uniformando a sé lo spazio della comunicazione, della socialità, dell’economia, e già relega la politica a una forma dell’apparire, priva di potere, assoggettata a un ratificare amministrando. Lo schermo, patrimonio inclusivo e condivisibile, basta connettersi, è la nuova soglia che l’umanità ha oltrepassato. Si appresta un ordine che si presenta come spazio di infinite opportunità, scelta libertaria, ma si rivela invasivo e totalizzante. Un vocabolario politicamente corretto sempre più stretto, un galateo in via di definizione che fa della trasparenza il proprio imperativo etico, per una messa in scena di cui, agli albori della modernità, la Corte di Versailles fu un prototipo storico. Lo schermo è il Re, dentro lo schermo ruota la corte. Lo schermo si scompone all’infinito per essere ovunque e inglobare chiunque e si ricompone continuamente in un attimo eterno di immediatezza autorigenerante, connesso e condiviso. Tutti siamo chiamati, c’è spazio per tutti e per tutto. Non è la terra promessa. Torre di Babele?