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C’era un bel dì la battaglia di Magenta

​Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908), massimo protagonista, insieme a Silvestro Lega e a Telemaco Signorini, del movimento pittorico naturalista del secondo Ottocento italiano che i manuali chiamano dei “Macchiaioli”, era un uomo del Risorgimento. Come i suoi amici artisti si batteva per l’indipendenza dell’Italia e riteneva necessaria la guerra di liberazione contro gli Austriaci. Spesso i suoi quadri rappresentano scene militari: accampamenti, movimenti di cavalleria, pattuglie in avanscoperta, gruppi di uomini in armi. Eppure questo artista patriota che crede nella libertà dei popoli dalla oppressione straniera ed esulta per i successi della rivoluzione italiana, sa che la guerra è sempre e comunque un’assurda malinconica tragedia. Lo sa e ce lo dimostra in un dipinto giustamente celebre conservato nella fiorentina Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti.

Nell’anno 1862 Giovanni Fattori dipinge Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta. Guardate questo quadro improntato a un dolente umanissimo realismo e vi sembrerà di essere dentro le pagine di Guerra e Pace, là dove Lev Tolstoj (siamo negli stessi anni) descrive il campo di Borodino dopo l’atroce massacro.

Al centro della composizione non c’è un generale vittorioso né ci sono truppe festanti. Non vediamo fasci di bandiere prese al nemico. Non c’è nulla che glorifichi la guerra. Al contrario, c’è un soldato morto caduto bocconi sul ciglio della strada, ci sono uomini e animali che si ritirano spossati dalla linea del fuoco e c’è una rustica ambulanza tirata da un cavallo, con due suore a bordo che raccolgono i feriti e prestano i primi soccorsi. Quel carro, predecessore dei moderni servizi di Croce Rossa, è il fuoco dell’intera composizione, ne rappresenta il cuore prospettico e tematico.

Un particolare resta tra tutti indimenticabile: riverso sul pianale del carro-ambulanza c’è il “nemico”, un tenentino austriaco di vent’anni riconoscibile dalla divisa bianca. È ferito, forse morente. Accanto a lui una giovane suora, sua coetanea, gli sta prestando le prime cure. Commuovono le mani della donna che sfiorano con una specie di pudore il corpo del soldato. Sono due ragazzi che la ruota della storia ha gettato nella fornace della guerra. Vorremmo un lieto fine per il tenentino ferito e per la suorina che lo accudisce, ma Fattori sa, e noi con lui, che in guerra le storie a lieto fine sono davvero molto rare.

Tutte le forme dell’arte (la pittura come la poesia, la letteratura come il cinema) sono piene di opere che raccontano la guerra come festa e gioco, come eroismo e gloria. Giovanni Fattori, che pure è uomo di salda fede patriottica, ci dice nel suo quadro che non c’è gloria nella guerra, che in battaglia non esiste la “bella morte”.
Non è stata bella la morte del soldato senza nome che vediamo riverso a faccia in giù sulla sinistra, non sarà bella quella del giovane tenente che, lontano dalla madre e dalla patria, una palla italiana ha fermato sul campo di Magenta.

di Antonio Paolucci