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Con Michelangelo e Vasari pellegrini per le sette chiese

​Non si tratta solo di committenze e mecenatismo papale. In tanti modi, gli Anni Santi – attraverso l’arte – hanno influito sull’anima dei romei, degli stessi pittori, scultori, architetti, oltre che sul volto di Roma. La tentazione sarebbe quella di partire da Giotto e arrivare almeno alle realizzazioni di Bernini o Borromini, sostando magari sugli artisti impegnati nella Sistina: Botticelli, Signorelli, il Pinturicchio, il Perugino; o su Bramante, Beato Angelico o Melozzo da Forlì. A parte il problema delle attribuzioni (ad esempio si continua ad attribuire alla scuola di Giotto l’affresco dedicato a Bonifacio VIII in San Giovanni in Laterano, per il quale invece si dovrebbe forse spendere il nome di Pietro Cavallini, il quale poi vi avrebbe fissato la presa di possesso della basilica e non la prima indizione del Giubileo), a parte il problema di tante opere comunque ascrivibili al contesto giubilare e sovente andate perdute, lo spazio non sarebbe mai sufficiente. Così, ricordato che occorre arrivare al tempo di Martino V e al suo Giubileo straordinario, tra il 1423 e il 1425, per fissare l’avvio del dinamismo di papi costruttori, urbanisti e mecenati e per trovare un episodio paradigmatico della relazione fra artisti e Giubilei, riportiamo  qui la vicenda di Michelangelo.
A Roma già durante il pontificato di Alessandro VI quando, ventitreenne, nel 1498, scolpisce la Pietà; poi al Giubileo del 1525, durante il quale Clemente VII si gode i lavori di Giulio II e Leone X (e quando a Roma stavano anche Sansovino e Cellini, Perin del Vaga e Baldassarre Peruzzi); Michelangelo è nell’Urbe pure durante il Giubileo del 1550 indetto da Paolo III, spesosi molto in previsione dell’evento, celebrato poi da Giulio III.
Molti cronisti – e noi con loro – per questa ricorrenza, si soffermano proprio su un Buonarroti settantaseienne tormentato dal “mal della pietra” (una calcolosi): sull’artista alle prese con il Giudizio Universale (iniziato attorno al 1535), sull’amico del papa (e per questo motivo invidiato), e sul pellegrino devoto in visita alle sette chiese (pratica da poco inventata da san Filippo Neri) insieme all’architetto, pittore e scrittore Giorgio Vasari. Ecco come quest’ultimo, nella sua Vita di Michelangelo, descrive (in terza persona) il loro Giubileo: «In quel tempo ogni giorno il Vasari stava con Michelangelo; sicché, una mattina, il Papa concesse per amorevolezza ad ambedue che, nel fare le sette chiese a cavallo, poiché si era nell’Anno Santo, ricevessero il perdono a doppio. E mentre facevano questo pellegrinaggio, tra una chiesa e l’altra, essi discussero tra loro di arte, facendo dei ragionamenti belli e molto utili, che il Vasari trascrisse in un dialogo».
Del dialogo, mai ritrovato ma citato in diverse lettere, e che secondo molti autori non andrebbe confuso con i Ragionamenti, ancora se ne discute la destinazione e il vero contenuto. Quel che è certo invece, è che sia Vasari che Michelangelo gradirono molto “il doppio perdono” concesso dal pontefice.
Con l’avanzare degli «affanni», come scrisse in un sonetto del 1552-54 (qui riportato in una versione corrente) Michelangelo avvertiva la necessità di un “doppio aiuto” divino: «Giorno dopo giorno, fin dai primi anni, / tu mi fosti soccorso e guida, / per cui ancora l’anima mia si fida / di doppio aiuto nei miei doppi affanni».

di Marco Roncalli