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Caravaggio e il Matteo di ogni giorno

di Antonio Paolucci

​Chi era l’evangelista Matteo? Per i Vangeli era un pubblicano, uno che riscuoteva le tasse per conto di Roma, la potenza occupante la Giudea di allora. Era quindi, Matteo il pubblicano, un collaborazionista, un servo del potere straniero. Stava all’ultimo posto nella considerazione morale di un ebreo del primo secolo della nostra era. Il suo statuto era quello dell’infamia. Ebbene, Cristo chiama a sé questa specie di intoccabile e Matteo lascia tutto e lo segue. Fin qui il Vangelo.
Questo argomento fu chiamato a illustrare Caravaggio quando – in vista del Giubileo del 1600 – ricevette dall’alto prelato Mathieu Cointrel (italianizzato in Contarelli) l’incarico di raccontare nella cappella di San Luigi dei Francesi, chiesa nazionale di Francia a Roma, la vita e le opere dell’evangelista Matteo, santo patrono del committente. Nel telero che racconta la chiamata di Matteo, Caravaggio operò per analogia. Il Vangelo, per essere efficace, per rendere comprensibile alle donne e agli uomini del tempo presente il suo messaggio, deve essere attualizzato, deve portare le vesti e assumere le fisionomie della gente di oggi. Questo pensiamo noi e questo pensava il credente Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio.
E allora chi è, chi può essere, nella Roma del 1600, il Matteo dei Vangeli che Cristo chiama alla Grazia? Caravaggio non ha dubbi, ed ecco l’analogia geniale che trasferisce la Gerusalemme di Ponzio Pilato nella Roma sordida e malavitosa dei suoi giorni. Per Caravaggio Matteo è l’usuraio, il cambiavalute che presta denari a strozzo e traffica con personaggi poco raccomandabili.
La scena descritta dal pittore è ambientata in una specie di stamberga, da immaginare in qualche vicolo di Roma, fra il Pantheon e Campo dei Fiori. All’interno, intorno a un tavolo ci sono uomini che maneggiano e contano monete. Bene in vista, orgogliosi delle loro vesti costose e delle splendide armi, ci sono due giovani; una tipologia umana che diresti in bilico fra il “bravo” manzoniano, il giocatore professionista e lo sfruttatore di donne. È una rappresentazione della realtà, un colpo di mano sul Vero, quale mai si era visto prima nella pittura italiana.
Dalla porta di questo luogo malfamato entra Cristo. Entra nella luce gialla, sporca, del vicolo e la sua mano – citazione da quella di Adamo nell’affresco della volta della Sistina (perché solo con un altro Michelangelo, il Buonarroti di Firenze, Michelangelo Merisi da Caravaggio voleva confrontarsi) – chiama il prescelto. Lo accompagna san Pietro, il principe degli Apostoli, il primo papa. In origine la sua figura non era prevista. Come hanno dimostrato le radiografie è stata aggiunta in un secondo tempo. Evidentemente il cattolico Caravaggio aveva pensato (o qualcuno lo avevo indotto a pensare) che «sine Ecclesia nulla est salus». Per questo è stato aggiunto san Pietro, simbolo e guida della Chiesa universale.
Ma chi è, fra tutti gli astanti, Matteo, il chiamato? A lungo si è pensato che fosse l’uomo d’età, decorosamente vestito, che, al centro del tavolo, si porta la mano al petto, quasi volesse dire al Cristo che entra: «Vuole me? Cerca me?». In realtà, gli studi recenti (Sara Magister, 2017) hanno dimostrato che il “vero” Matteo è il giovane bruno, torvo, tutto concentrato nel contare le sue monete sulla sinistra della composizione. Per ora non si è accorto del Cristo che, in una fascia obliqua di luce, è entrato nella stanza. Quando se ne accorgerà, quando ascolterà la chiamata, allora lascerà tutto e seguirà quella mano protesa verso di lui. Il Vangelo è magnificamente essenziale su questo punto. Non dice quali argomenti ha usato Gesù per convincere Matteo a seguirlo. La chiamata non prevede effetti retorici, non conosce passaggi dialettici, non ammette discussioni. Quando arriva colpisce al cuore ed è per sempre.
Come dimostrerà fra un attimo Matteo: alzandosi dal banco dell’usuraio, abbandonando le monete che stava contando con tanta cura, e seguendo il Maestro.