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Caravaggio,la Medusa tra vita e morte

​Era il 7 settembre 1598. Quel giorno il cardinale Francesco Maria Del Monte, intellettuale raffinato, eminente uomo di curia oltre che ambasciatore di Firenze presso il papa, consegnava al granduca Ferdinando de’ Medici un dono. Si trattava della «rotella o scudo tondo con fregio intorno arabescato d’oro e dipinto in mezzo la testa di Medusa in campo verde», capolavoro di un Caravaggio appena ventottenne ma già artista famoso a Roma e conteso da grandi collezionisti quali il marchese Giustiniani, i cardinali Del Monte e Borghese.
La rotella era uno scudo cerimoniale che aveva funzioni decorative. Collocata nella armeria dei Medici, completava il sontuoso fornimento guerriero (corazza da cavalleria in seta rossa, acciaio e oro) che lo scià di Persia Abbàs il Grande aveva donato al granduca di Toscana. Oggi la Medusa di Caravaggio sta agli Uffizi accanto agli altri suoi capolavori (il Bacchino, il Sacrificio di Isacco) e alle opere meglio rappresentative del naturalismo italiano ed europeo del XVII secolo.
Ma in cosa consiste la novità della «testa di Medusa tutta serpeggiata» (così la definiscono i documenti) di Caravaggio? Consiste nella rappresentazione della verità totale, quasi un fotogramma fulmineo sul vero dispiegato in tutta la sua smagliante brutalità. Altri artisti, prima di Caravaggio, avevano dato immagine al mito di Medusa, al mostro che pietrificava con lo sguardo e che Perseo decapitò. Di norma tuttavia gli artisti (si veda per tutti Cellini nella fiorentina Loggia dell’Orcagna) amavano rappresentare la decollazione come già avvenuta e l’eroe Perseo che presenta come macabro trofeo la testa decollata.
Non così Caravaggio. Egli vuole scrutare e rappresentare il momento nel quale la vita si spegne, l’attimo liminare che sta ai confini dell’altrove. Si dice che, quando è staccato dal collo, il cervello continua a pensare e il decollato a sentire e a vivere. Si pensava e si diceva anche, all’epoca di Caravaggio, che lo sguardo del condannato a morte poteva essere contaminante. Guai a incrociarlo nel momento in cui la testa veniva staccata dal corpo perché in quel momento il vivo non ancora morto (o il morto ancora vivo) avrebbe potuto guardarsi intorno alla ricerca di un compagno da portare con sé nell’aldilà. Per questo era necessario coprire con una benda gli occhi del condannato al momento dell’esecuzione. Caravaggio, che era uso assistere alle esecuzioni capitali in Campo dei Fiori, queste cose le sapeva bene. Nell’anno 1598, nella “rotella” destinata al Granduca, ha fatto cadere la benda. Noi possiamo guardare negli occhi il giustiziato ed egli ci guarda. Il momento supremo che sta fra questo mondo e l’aldilà, grazie a Caravaggio ci viene disvelato e diventa così il “nostro” momento.
Bisogna guardare da vicino la Medusa per avvertirne tutto il fascino ipnotico. Sembra di avvertire il sibilo sferzante delle vipere, il viscido groviglio anguiforme. Probabilmente su quest’opera pesa la suggestione di un perduto dipinto di Leonardo all’epoca custodito nelle collezioni medicee. Ma nessuno, né Leonardo né altri, aveva mai saputo toccare livelli di verità così straordinari. Sgorga a fiotti il sangue dal collo tagliato, ruotano gli occhi nelle loro orbite, lampeggiano e sembrano stridere i denti in un urlo che è di orrore più che di dolore.
Di serpenti era fatta la capigliatura di Medusa e Caravaggio ha voluto rappresentare serpenti veri, vipere comuni e aspidi studiati probabilmente presso qualche serparo nei mercati romani. Non ci aspetteremmo di meno dal pittore del Bacchino malato della Borghese o della Canestra di frutta dell’Ambrosiana. E a noi che guardiamo Michelangelo Merisi da Caravaggio, all’anno 1598, Medusa permette di antivedere il grande naturalismo ottocentesco di Géricault e di Courbet.

di Antonio Paolucci