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Campo Baeza, poesia per una monaca

​L’architetto spagnolo Alberto Campo Baeza (1946), nel 1998, disegna a Cadice un “colombario”, ristrutturando una vecchia lavanderia esistente sul tetto del monastero delle carmelitane scalze, di fronte all’Oceano Atlantico.
Campo Baeza riesce a trasformare in un inedito luogo di meditazione e di preghiera per le monache quella che apparentemente poteva sembrare una normale operazione di riordino.
Questo piccolo spazio possiede una grande forza iconica che, fin dal primo sguardo, colpisce l’osservatore per la semplicità dell’intervento architettonico, per l’essenzialità dello spazio recuperato, per il modo in cui l’intorno risulta protagonista: una pausa di silenzio di fronte al mare.
Dobbiamo ringraziare l’architetto e le monache del convento se oggi possiamo scrivere queste note di ammirazione in un contesto di vita caratterizzato dal gran correre, dove pausa e tranquillità sembrano termini dimenticati o inesistenti.
Campo Baeza è un architetto coraggioso che, forte di un registro linguistico molto personale, riesce a interpretare le attese e le speranze del proprio tempo, pur dentro le contraddizioni che coinvolgono questa nostra generazione.
A Cadice ci offre una lezione di umiltà, indicando alcuni valori basilari del “fare architettura”: le potenti mura che affrontano la misura fra interno ed esterno, l’apertura della finestra sull’immensità del mare con la (stupenda) campana che sembra essere in fragile equilibrio, la luce zenitale che evidenzia la parete perimetrale, la misura a “dimensione di monaca” di uno spazio recuperato per la vita di ogni giorno.
Queste proposte dell’architetto sono forme espressive apparentemente normali nello svolgersi del mestiere ma che, in questo contesto, risuonano perentorie per il loro messaggio di armonia e semplicità che giunge all’osservatore come un’esperienza intensa, vicina al mistero del fatto poetico.
Oggi può sembrare temerario parlare di spazio poetico, l’architettura costruisce rapporti spaziali stabili che variano unicamente in funzione della luce ritmata del ciclo solare, con equilibri variabili fra le parti che la compongono. Ma ci sono eccezioni là dove la misura dell’intervento e la composizione delle parti architettoniche risultano particolarmente felici, capaci di sorprendere il visitatore.
La poesia è una realtà rara e indecifrabile, una condizione che appartiene all’uomo più che allo spazio. La sua ragione di esistere è aleatoria e quando, raramente, si manifesta non può poi che scomparire in un baleno. Per questo lo stato di gioia e di meraviglia del fatto poetico evocano condizioni oltre il finito e sprigionano un’aura di silenzio autentico e profondo che caratterizza un’atmosfera suggestiva.
Una sensazione – quella dell’incanto poetico – che si avvicina all’altrettanto inafferrabile condizione dello spazio del sacro, che l’architettura, nella sua storia plurimillenaria, ha avuto modo di testimoniare come componente intrinseca alla disciplina.
Forse è importante anche per noi, oggi, ripartire da questa bella immagine del colombario di Cadice, con la campana rivolta al mare e il profilo silenzioso della monaca. Un’immagine che ricostruisce un modo per ritrovare i valori fondamentali dell’architettura e per cercare nuovi spazi di quiete e bellezza.
Un racconto che narra un anelito continuo nella storia dell’uomo, un racconto di cui inconsapevolmente facciamo parte. Un colombario appartato e raccolto che testimonia una parte essenziale della nostra identità.

di Mario Botta