Luoghi dell' Infinito > Aldo van Eyck la chiesa come territorio

Aldo van Eyck la chiesa come territorio

​Per gli architetti della mia generazione Aldo van Eyck (1918-1999) è stata una costante figura di riferimento, sia come “costruttore” sia come intellettuale. Nella seconda metà del secolo scorso, ha saputo interpretare con grande sensibilità le speranze enunciate dalle avanguardie del Movimento Moderno, poco prima che fossero spazzate via dall’ubriacatura della società dei consumi.
Fin dalle sue prime opere – orfanotrofio di Amsterdam (1955-1960) – l’architetto ha dato prova di grande impegno etico e sociale attraverso la propria ricerca. Con un linguaggio architettonico naturale e immediato, diverso rispetto ai modelli e alle tipologie del passato, van Eyck affronta i progetti attraverso un sistema combinatorio di elementi o di parti compiute grazie ai quali la composizione non è più un semplice volume costruito ma diviene un paesaggio articolato. Questa organizzazione degli spazi presuppone e favorisce la partecipazione attiva dei visitatori. La varietà degli spazi generati concorre infatti alla costruzione di un sistema che moltiplica le possibilità di interpretazione e di fruizione.
Mi ricordo di un nostro incontro casuale a Salonicco durante il quale Aldo van Eyck mi propose (scherzosamente) un’improbabile collaborazione a un progetto dove io avrei disegnato le mura e lui le trasparenze. Sebbene fosse una battuta, è indicativa della sua convinzione della necessità di una pluralità degli interventi e dell’importanza di un registro compositivo eterogeneo, nel quale le differenti concezioni spaziali divengono la ragione prima dell’architettura.
La chiesa cattolica “Pastoor van Ars” (Curato d’Ars) a L’Aja è un esempio significativo della lezione spaziale e distributiva che guida la poetica di van Eyck. L’edificio chiesa viene declinato come un paesaggio urbano coperto nel quale si moltiplicano percorsi, possibili soste e differenti prospettive. Come all’interno di un’antica basilica, l’architetto privilegia i percorsi che incrociano e nel contempo separano le parti “istituzionali” delle tipologie ecclesiali (aula, transetto, coro, cappelle…) che, forti di una loro spazialità, disegnano un’immagine di grande identità formale. A fronte di un disegno planimetrico chiaro, sorretto da una geometria sottintesa che trova la propria forza nella distribuzione orizzontale del pianoterra, l’architetto modifica la dimensione verticale degli spazi introducendo un alto transetto che congiunge trasversalmente i due fronti lunghi, est e ovest.
La chiesa come paesaggio di spazi e di luce (forti, ritmate e imponenti le presenze dei lucernari circolari) trascende la sua funzione di edificio per trasformarsi in un vero e proprio “territorio” dove si ritrovano spazi appropriati per le singole funzioni. L’essenzialità dei materiali (elementi prefabbricati per architravi e pilastri, cemento armato, muratura in blocchi di cemento e pavimento in conglomerato) offre un’immagine semplice e povera che contrasta con il carattere “aulico” degli arredi sacri. La qualità e la misura dell’architettura, unite ad alcune felici intuizioni distributive (le cappelle cilindriche aperte, l’andamento della scala d’ingresso che compensa la differenza di quota al piano terra fra il fronte est e quello ovest), accentuano l’immagine di “tessuto” distributivo che il fruitore percepisce come spazio di grande qualità, spazio di contemplazione che, attraverso un linguaggio attuale, interpreta una storia millenaria.

di Mario Botta