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Achille, l’epica di un rabbino

di Antonia Arslan

​Il mio amico rabbino si chiamava Achille, e questo nome risonante di echi epici e guerreschi per me curiosamente si adattava benissimo al suo aspetto austero e deciso ma anche benevolo, con un guizzo sorridente che affiorava sulla bocca e man mano si allargava agli occhi e infine a tutto il viso.
Di cognome faceva Viterbo e anche questo evocava per me echi di grandezze antiche. Nella mia testa infantile i cognomi degli ebrei avevano assunto una dimensione assolutamente fantastica: Verona, Padova, Parenzo, Fano, Senigallia non erano più solo luoghi fisici, ma - in un modo che mi affascinava - si trasformavano in persone viventi, in nobili famiglie che diventavano in qualche misura gli emblemi della ‘loro’ città, ne assumevano la storia e la nobiltà secolare. ‘Abbiamo una marcia in più’, diceva con un ghignetto divertito zio Renato Parenzo.
Così i Fano-Saravalle, che abitavano al piano di sopra di casa nostra, non erano solo la signora Wanda, meravigliosa amica e confidente di ogni mia stramberia, o sua figlia Adele, benefica elargitrice di squisitezze e abile giocatrice in borsa, o il figlio Cece che veniva dal Venezuela e fece nel nostro giardino il suo magnifico ricevimento di nozze (e in quell’occasione fummo invitati tutti in sinagoga): rappresentavano anche la città di Fano, che per me si collocava in una inspiegabile dimensione magica, ai confini fra realtà e leggenda. D’altronde, la signora Wanda coi suoi capelli argentei intorno alla bella testa e il viso imperioso mi sembrava davvero una regina, sulle cui lunghe mani aristocratiche giustamente brillavano le luci di anelli di tutti i colori.
Padova era anche il cognome di una delle zie Luise, gentile e dolcemente affettuosa, piccolina di statura, che per questo mi era particolarmente simpatica, dato che sono piccoletta anch’io, mentre tutte le altre zie svettavano maestose nei loro ampi cappelli, veleggiando in giro per la città insieme a mia madre con la quale si perdevano in chiacchiere infinite. Ma con me lei condivideva una devota amicizia per il rabbino Viterbo.
Una volta, qualche giorno dopo aver litigato duramente col parroco per una questione di banchi antichi improvvidamente venduti, andammo insieme alla vendita annuale di beneficenza delle signore ebree. Appena vide il rabbino, mamma Vittoria, impetuosa come sempre, gli comunicò che aveva deciso di convertirsi all’ebraismo, perché aveva sempre amato la Bibbia ed era stufa dei preti: e io non ho mai dimenticato il lampo divertito e costernato insieme negli occhi di Viterbo, e la pazienza con cui la convinse un po’ alla volta che l’idea non era molto sensata... Fu in quell’occasione che ci guardammo intensamente, e passò fra noi un lampo di comprensione profonda, un riconoscimento di amicizia che stabilì un misterioso legame. Da allora ogni tanto mi telefonava, e qualche volta ci incontravamo fermandoci a parlare, finché era a Padova. Poi rimase solo, e andò a vivere a Trieste, ma continuammo a sentirci per telefono. Chiamava lui, e scambiavamo riflessioni o pensieri con molta reciproca simpatia e concordia di idee; e poi mi dava consigli, che erano sempre perspicaci e adatti al mio umore, ma anche mi aiutavano senza parere, mi chiarivano a me stessa: infine, mi rallegravano. Che la terra ti sia lieve, amico rabbino, uomo di Dio.