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Gastone o il silenzioso coraggio

​di Antonia Arslan

Quando lo conobbi, taciturno ma non burbero, mi accorsi subito che non era affatto facile classificare Gastone Veronese. Proveniva, con orgoglio, dal paese di Sant’Urbano d’Este, profonda campagna padovana; era un bell’uomo alto, dai lineamenti regolari e capelli bianchi e abbondanti; ed era destinato a diventare mio suocero.
Mentre sua moglie, la futura suocera Elsa, piccolina e rotondetta, era un vulcano di amabilità e chiacchiere gentili; dall’alto della sua bella statura Gastone la guardava con indulgenza e non interveniva mai. Al massimo assentiva gravemente. Tutto sembrava sempre andargli bene: cibo, gente, caldo o freddo, stagione, temperature, persone, governo e partiti. Non era facile cavargli di bocca un’opinione: eppure mi accorsi ben presto che ne aveva, e di piuttosto solide.
E se non era d’accordo su qualcosa, sorrideva appena bonariamente; perfino a me non riuscì mai di trascinarlo dalla mia parte in qualche discussione. Però mi accorsi presto che aveva cominciato a volermi bene. Quando mi vedeva arrivare per il pranzo della domenica, nella quieta villetta di periferia dove abitavano, sulla sua fronte si distendevano le rughe; e poi mi voleva servire lui stesso, con garbo antico. Aveva mani d’oro: costruì un teatrino, bei mobili estrosi, pinocchietti e amache, un elegante tavolo da giardino che esiste tuttora, con le sue belle sedie robuste.
La loro casa stava al centro di un terreno verde, un campo più che un giardino, che sul retro costeggiava la ferrovia. C’erano alcuni alberi da frutto, tre meravigliosi albicocchi, e un prato piuttosto stento. A volte – dopo mangiato – andavo fino in fondo e mi incantavo a guardare la massicciata su cui passavano i treni, che cominciavano a frenare proprio in quel punto, in attesa della successiva fermata. Lui, Gastone, era proprio il capostazione, responsabile di una delle più importanti stazioni del Nord Italia: di questo parlava volentieri, come dei suoi amici ferrovieri, delle altre sedi dove era stato, della loro tacita e un po’ misteriosa solidarietà nel bisogno («non solo materiale – mi disse una volta –, se tu sapessi quanta malinconia e nostalgia di casa ti viene quando devi condurre un bestione con tanti vagoni pieni di gente e di luci, mentre tu sei solo davanti al buio là fuori e ti senti un po’ sperduto...»).
Quando nacque la mia Cecilia, Gastone – che non aveva avuto figlie – riversò su di lei un enorme fiume di affetto e si trasformò in un nonno ideale. Lei lo amò subito moltissimo, mentre diffidava di mio padre, sempre distratto da cinque figli chiassosi e da un lavoro esigente. Giravano a raccogliere le albicocche squisite, riempiendo diligentemente cestino su cestino, e intanto parlavano fitto, non ho mai saputo di cosa, perché al mio arrivo si interrompevano con aria colpevole e subito me le offrivano, chiaramente sperando che me ne andassi via al più presto...
Eppure il mite Gastone aveva un segreto, e non fu lui a rivelarlo. Durante la guerra, con due suoi fedeli amici ferrovieri, aveva in un paio di occasioni sganciato un vagone da treni diretti in Germania, dirottandolo su un binario morto, dal quale i deportati erano poi stati fatti fuggire verso la Svizzera. Lo appresi per caso, e lui disse, scontroso: «Noi abbiamo fatto ben poco. Non vale davvero la pena di ricordarlo».