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Un mito senza tramonto

Forlì dedica una mostra al ruolo di Piero nella cultura del suo tempo e in quella moderna,Sansepolcro studia la sua “Resurrezione”

​Gli ordini sono chiari: bombardare Sansepolcro. Il comando alleato vuole radere al suolo il borgo, in cui si concentra la resistenza delle truppe nazifasciste. È il 31 luglio del 1944, l’Italia è nel pantano della guerra. Ma il capitano inglese Anthony Clarke, che aveva visto le macerie di Montecassino rimanendone sconvolto, risponde via radio che a Sansepolcro non si vedono né truppe tedesche né obiettivi sensibili da cannoneggiare. Mente, e sa di rischiare la corte marziale. Ma la città è salva. Non, però, per pietà verso i suoi abitanti. In quelle ore nelle orecchie del capitano Clarke risuonano le parole vergate venti anni prima da Aldous Huxley: «La Resurrezione di Piero della Francesca è la più bella pittura del mondo». Davvero il “vessillo” dipinto dal maestro aveva protetto la sua città.
Potrebbe bastare solo questo per capire quanto sia radicato nella coscienza comune il “mito” di Piero della Francesca, a cui Forlì dedica una mostra nel (probabile) sesto centenario della nascita. In un certo senso la Resurrezione di Sansepolcro è doppiamente emblematica di Piero. Non solo per il suo stile, potente, lucido e allo stesso tempo enigmatico, ma perché come il Cristo che si solleva dal sepolcro separando l’inverno, il tempo della morte (gli alberi secchi a sinistra) da quello della vita primaverile (la natura verdeggiante a destra), è un artista che è stato più volte uno spartiacque nella storia dell’arte. Celebrità e maestro riconosciuto – e inarrivabile – ai suoi tempi, Piero è punto di sintesi di storie ed esperienze che forse ancora più che l’Europa riguardano l’intera civiltà occidentale. Riemerse alla coscienza moderna nella metà dell’Ottocento grazie ai viaggiatori inglesi che esploravano la Toscana. Un articolo di Austen Henry Layard sulla Resurrezione spinse molti studiosi (lo scrittore e storico dell’arte inglese John Addington Symonds nel 1873 la definì «la rappresentazione più sublime, più poetica e più terribile che sia mai stata fatta della Resurrezione») e poi molti artisti a farsi pellegrini tra i colli aretini, allora oscurati dagli splendori di Firenze e Siena. Ai britannici seguirono presto i francesi (accompagnati dai nostrani e “locali” macchiaioli) e Piero divenne motivo di riflessione per Degas, Puvis de Chavannes, Seurat, assurgendo poi a riferimento obbligato per il Novecento più “metafisico”, ma non solo.

di Alessandro Beltrami