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Tuscia, signora degli anelli

Nell’ellisse disegnata attorno ai laghi di Bracciano e Vico, strati infiniti di bellezza e di storia emergono a ogni passo

di Federico Geremei

​Sui confini di Etruria e Tuscia – o Tusce (sic), al plurale – non dovrebbero gravare troppe lectiones interpretative. Vengono però spesso contratti, flessi o stiracchiati con disinvoltura tra attenuanti e imprecisioni: le prime riflettono la complessità di un patrimonio storico-geologico composito come quello devozionale e abitativo, le seconde non ne minano comunque la ricchezza di segni, presenze, passaggi e paesaggi. Lasciamo la questione aleggiare e sagomiamo una precisa porzione nell’Alto Lazio, disegnandoci dentro un’ellisse: ruota intorno a due fuochi – però liquidi, i laghi di Bracciano e di Vico – e un asse, la via Francigena. Il risultato è un itinerario di cento chilometri, tutti dentro una qualche Tuscia tra la Maremma di terra e l’Appennino della valle del Treja.
Partiamo da Sutri, per tre motivi più uno: Livio la definì “Porta d’Etruria”, è stata un giunto liminare con la terra dei Falisci (ennesima cerniera, altri strati di storie) e qui il cammino d’Oltralpe si sovrappone, varianti comprese, alla Cassia. Ai piedi del borgo, poi, s’apre un anfiteatro a pianta ellittica – sigillo sublime di questo percorso – che non si sa se vada attribuito agli Etruschi (plausibile) o ai Romani (probabile). È però certo che  sia stato scavato completamente nel tufo rosso a scorie nere che il vulcano di Vico ha generato. Sono tuttavia i vicini ambienti del mitreo – una teoria di concavità sature di riti sovrapposti, incisi e perduti – a interessarci. Uno in particolare, la chiesa della Madonna del Parto. Il minuscolo vestibolo ritrae san Cristoforo, squaderna le vicende pugliesi di san Michele arcangelo e raffigura la Vergine tra santa Dolcissima e san Liberato. La stessa caratura di fede, ancora più raccolta e altrettanto potente, riverbera nelle tre navate, scandite da dieci pilastri.