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Terre estreme

Dalla Dancalia alla Patagonia, gli uomini vivono anche nel nulla. Perché se ne conosci le regole nessuna terra è estrema.

​Andrea Semplici
Per diciotto mesi, un anno e mezzo di vita, Greta è vissuta nelle “terre aride” a occidente del lago Turkana. Una savana punteggiata di acacie e un cielo che, troppo spesso, ha il colore del latte. Greta è una giovane ricercatrice dell’università di Oxford. Non è un’esploratrice, non è una viaggiatrice, non è un’avventuriera, non è una giornalista. È un po’ economista e un po’ antropologa. Si occupa di nomadismo, di pastori transumanti, di popolazioni che noi definiamo nomadi. Per mesi e mesi è rimasta sola. Ha accompagnato mandrie di cammelli, ha cercato acqua assieme alla gente turkana, ha dormito fra pietre e polvere, ha imparato a guardare il colore della terra, i segni degli alberi, il vibrare delle nuvole nel cielo. Non conosce ancora l’alfabeto delle “terre estreme” – non è possibile apprenderlo se non sei nato lì – ma ne ha intravisto alcune regole. Troppo pochi diciotto mesi per diventare nomade. Troppo pochi per imparare la normalità di una terra inospitale. Inospitale per chi?  Ho già scritto di “terre estreme”. Per le riviste che anni fa ancora esistevano. Anche per questa rivista.   Scrivere e viaggiare era il mio mestiere, andavo in quelli che credevo essere i confini del mondo. Niente di molto coraggioso: non attraversavo oceani come Giovanni Soldini, non mi avventuravo nell’Artico come il fotografo Vincent Munier, non scalavo montagne nel cuore dell’Himalaya. Certamente, i miei erano viaggi in terre che apparivano lontane, difficili, selvatiche, ma erano ben protetti (guide, fixers, autisti, scorte). Andavo in Dancalia, in certe regioni della Patagonia, nel Sahara oltre la linea delle oasi, anche un balzo sulla costa occidentale della Groenlandia. Avevo sempre un biglietto di ritorno. Ora, per scrivere nuovamente di “terre estreme”, per scrivere questo articolo, sono andato a cercare una giovane ricercatrice italiana che, come cento suoi colleghi, è vissuta in un paesaggio africano disegnato da spine e nuvole, da solitudine e diversità assoluta dal mondo in cui vive “normalmente”.  Terre estreme? La risposta è una domanda-eco alle parole già scritte poche righe più sopra: “Estreme, per chi?”. Poi il dubbio: «Non possiamo nemmeno dire che là va tutto bene – Greta cerca una precisazione –. Chi è nato e vive nelle savane turkane, impara giocoforza a viverci. È un apprendistato. A un certo punto, il luogo non è più ostile: per loro diventa casa». Un posto dove tornare dopo le migrazioni con gli animali. Le terre estreme sono “un punto di vista”. Non vi riusciremo mai, ma dovremmo guardare a questi paesaggi con gli occhi di un pastore. Se fossimo in Artico dovremmo avere lo sguardo e i pensieri di un cacciatore inuit (anche se si muove in motoslitta). In un film recente, I segreti di Wind River, terra di ghiaccio quasi perenne del Wyoming, un assassino dice: «Non c’è niente qui. Silenzio e neve». Ha ucciso per noia. Un cacciatore gli risponde: «È tutto quello che abbiamo». E lo condanna.

 

I predatori del Creato

Dalla Mongolia al Cile, dalla Mauritania al Nepal lo sfruttamento della natura incide su clima e ambiente

Leonardo Servadio 
La frusta schiocca nell’aria e il suono si perde lontano. La bimba forse un po’ gioca, ma soprattutto sente la responsabilità: deve far muovere le capre. Il gregge avanza disordinatamente, la bimba sa che devono procedere oltre. Lei, la sua famiglia, le capre sono tutti nomadi. Devono cercare l’erba. Non vi sono pareti a rimandare gli echi dell’altalenante intreccio di belati: non edifici, non monti; solo l’ampiezza piatta della terra, e il suo uniforme colore brunito, qua e là punteggiato da ciuffi d’erba. Come un avvertimento lamentoso: pure nel deserto c’è la vita, e trapela con pertinacia tra i sassi, ma troppo rada per soddisfare tutte le capre. Per questo devono cercare altrove. Devono alimentarsi: devono far crescere il lungo pelo che le protegge dal freddo, sconfinato quanto gli orizzonti di quella vasta solitudine.  Raramente la temperatura sale sopra lo zero nel deserto del Gobi, esteso a un’altitudine tra i mille e i millecinquecento metri tra la Mongolia e il nord della Cina, dentro il continente, lontano dal mare. Lì la gente vive di pastorizia, e il lungo pelame che la natura regala alle capre per farle sopravvivere in quelle condizioni estreme, qui da noi è pregiato, morbido, caldo tessuto di eleganza sopraffina.  Man mano che cresce la richiesta di lana e si moltiplicano le greggi, più rapido si fa il consumo del raro nutrimento e il verde scompare: il deserto avanza, le piante si riducono, la catena alimentare soffre, e soffrono intere popolazioni.  Le immagini scattate da Luca Catalano Gonzaga catturano momenti critici e significativi di questi movimenti che avvengono lenti nel tempo, ma inesorabili. Rientrano nel grande, complesso avvicendarsi di fenomeni naturali e climatici su cui incide l’azione umana: se si riduce la vegetazione, diminuisce l’evaporazione e con essa le piogge decrescono e vien meno l’acqua di cui abbisogna la vita per nutrirsi. Il legame tra ciclo dell’acqua e sviluppo della vita è inesorabile e ineludibile: sulla crosta terrestre, se c’è acqua, c’è vita. Se no questa avvizzisce e scompare, come la goccia di pioggia scompare nella sabbia secca delle dune.  Il nostro è il “pianeta blu”: il colore degli oceani che lo coprono per quasi quattro quinti. Ma i mari son salati, mentre sulla terra animali e vegetali hanno bisogno di acqua dolce, che è meno del tre per cento del totale. Ed è questa che va amministrata per favorire la vita: con sistemi di irrigazione, canali, dighe, e con la prudente gestione delle foreste, senza le quali l’evaporazione si contrae e il suolo si riscalda.