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Sulle vette dell’arte

Ad Aosta i pittori della montagna e Segantini, il maestro che ha saputo coniugare la bellezza fisica e spirituale dell’ambiente alpino, fondendo realtà e simbolo

​«Questo racconto avrà la forma di un romanzo d’avventure intitolato Il Monte Analogo: è la montagna simbolica che unisce il Cielo alla Terra; via che deve materialmente, umanamente esistere, perché se no, la nostra situazione sarebbe senza speranza». Così scrive il filosofo e scrittore francese René Daumal in una lettera all’amico Raymond Christoflour, nel 1940. Sotto le parvenze di un romanzo d’avventura, Il Monte Analogo descrive una sorta di “metafisica dell’alpinismo” che è anche un itinerario minuzioso, lentamente maturato nelle esperienze dell’autore verso un centro, verso una vetta dove ciascuno possa diventare ciò che è. La spedizione tra terra e cielo che Daumal descrive si trasforma così in un percorso analogico, una sorta di metafora in cui non c’è niente che possa dirsi vero, e niente che sia falso del tutto e dove conta, più del resto, affacciarsi nella propria interiorità.
Una passione. Una sfida. Un’ossessione. Un confine. La montagna è questo e molto altro: un problema. Un problema che sembra investire la stessa condizione umana. Un po’ come accade nel misterioso caso letterario de Il Monte Analogo, o nella gioiosa stagione che sul finire dell’Ottocento ha accompagnato le vicende del Monte Verità: quella “repubblica dei senza patria” nelle vicinanze di Ascona che raccoglierà teosofi e psicoanalisti, anarchici e comunisti, letterati e musicisti, alla ricerca di una relazione intima e forte con una natura incontaminata, interpretata simbolicamente come “ultima opera d’arte”.
Forse le declinazioni della pittura di montagna si dispongono proprio all’interno di questi territori, la cui mappa è tracciata dalla mostra, recentemente inaugurata ad Aosta, “Giovanni Segantini e i pittori della montagna”.
Una montagna che, attraverso le oltre ottanta opere esposte, viene interpretata sia come “scoperta”, come fenomeno da studiare o viatico per incursioni visionarie, sia come “intuizione” simbolica, sia ancora come processo attraverso il quale la luce e le atmosfere generate dalle vette si dispongono di fronte ai nostri occhi.
Non è la montagna aspra, impervia e inospitale, luogo di tormenti e di apparizioni diaboliche, che ha accompagnato l’immaginario nordico medievale. Non è il mistero di Brueghel o di Dürer; nemmeno l’immagine della mutevolezza del peintre voyageur del Settecento e del romanticismo. È piuttosto la montagna che, nella regalità dei suoi ghiacciai, boschi, accumuli rocciosi, diventa soggetto autonomo, come testimoniano le opere dello squisito autodidatta Leonardo Roda, con il suo naturalismo luministico, pronto a cogliere le varianti atmosferiche che tormentano i suoi paesaggi alpini. E, soprattutto, come evidenziano le opere di Vittorio Sella, poco conosciuto come pittore, ma decisamente profondo investigatore delle montagne, alpinista provetto e fotografo insuperato, per la perfezione tecnica impiegata e per la raffinatezza dei “tagli” presenti nei suoi scatti.
Ma senza dubbio è la singolare esperienza del divisionismo italiano a caratterizzare maggiormente il taglio della mostra: dal luminismo vibratile dei paesaggi alpini di Carlo Cressini, dove la tecnica divisionista si esplicita in modo originale e mai con esasperato rigore, al tormentato dissidio che anima la ricerca di Carlo Fornara. Quest’ultimo presenta assonanze, o forse timide adesioni, al neoespressionismo francese, e audaci relazioni cromatiche (“barbariche stonature”, secondo il giudizio critico che nel 1897 rifiuta il suo En plein air alla Triennale di Brera) che entusiasmano Giovanni Segantini, che lo vuole suo assistente per il progetto, poi non realizzato per motivi finanziari, Paesaggio dell’Engadina, da presentare all’Esposizione universale di Parigi del 1900. È proprio Segantini a riannodare le fila di una vicenda quanto mai complessa e seducente. La sua adesione alla montagna, la passione per quell’esperienza della natura che lo accompagna dagli anni Ottanta fino alla morte (avvenuta nel 1899), costituisce una delle pagine più ricche e inquiete dell’arte moderna italiana. Dove la parola “moderna” deve intendersi come un aggettivo che include la complessità di un mondo visivo vasto e vario, che comprende gli echi delle “secessioni” italiane e straniere – movimenti che cercavano una rottura rispetto al mondo contemporaneo dell’arte –, e dove, allo stesso tempo, permane la tradizione del naturalismo ottocentesco, ancora ricco di richiami al simbolismo letterario e artistico, a quella panica e misteriosa “foresta di simboli” a cui alludeva Charles Baudelaire nelle sue Correspondences.
Anche prima dell’accostamento alla tecnica divisionista – per altro spesso contraddetta – la poesia del paesaggio, la lirica della montagna, la potenza degli accordi cromatici vedono Segantini interprete di un transito artistico decisivo, che si dischiuderà con la stagione delle “avanguardie storiche”, poiché, se è pur vero che «il pensiero dell’artista moderno – egli scrive – deve liberamente correre alle limpide e sempre fresche sorgenti della natura eternamente giovane, eternamente bella, eternamente vergine», è altrettanto vero che «non è arte quella verità che sta e resta fuori di noi: questa non ha e non può avere alcun valore come arte: questa non è e non può essere che cieca imitazione della natura quindi semplice riproduzione materiale. La materia deve essere invece elaborata dal pensiero per salire a forma durevole».

di Beatrice Buscaroli