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Siza, toccare la luce

Tre mostre a Roma omaggiano il maestro portoghese autore di un’architettura evocativa e profondamente sacra

​Marco de Canaveses è una cittadina nell’assolata campagna portoghese. Ha un’acropoli, e su quel rilievo si erge una chiesa bianca e dalle linee nette. Sul fronte, un portale sale dritto e lungo, come una figura di El Greco che in altezza supera ogni attesa, quasi a indicare come la materia può trasfigurarsi nello spirito. Si tratta della chiesa di Santa Maria, i cui muri sono possenti nella loro opacità, ma sono anche vicini al sentire di chi vi s’accosta. Due corpi sporgenti verso la piazza segnano il portale, come campanili. E la chiesa, alta quanto loro, affonda in alto nel cielo pur mantenendo tutta la corposità della sua presenza terrena. Mentre la nettezza degli spigoli, il ridotto numero di aperture, il disegno a duplice svasatura che incava la parete di fondo, la fenditura che bassa accompagna il lato lungo dell’aula così che chi passa fuori possa sentirsi vicino a coloro che stanno all’interno, garantiscono che la presenza di questo volume costituisca una presenza tanto aulica quanto prossima al comune sentire.
È una delle più note architetture di Álvaro Siza, il progettista portoghese al quale la città di Roma dedica tre mostre, a evidenziare l’importanza dei contributi che egli ha dato alla cultura italiana, nella singolare simpatia che si attiva tra sensibilità vicine che condividono il calore del sole, i vasti orizzonti marini, gli edifici bianchi che dicono semplicità familiare, e le pareti scolpite nella roccia che parlano di permanenza nei secoli. Come i grandi della letteratura, Siza sa esprimersi in un linguaggio vernacolare che viene nobilitato nella facilità con cui chi guarda può accostarsi alle opere e comprenderle e goderne.
La chiesa di Marco de Caneveses è una delle tante architetture presentate nell’esposizione “Álvaro Siza. Sacro”, in corso al Maxxi. Ma non vi sono solo lavori a carattere esplicitamente religioso: lo scopo della mostra è di evidenziare come una certa cultura architettonica abbia in sé la capacità di ricollegare memorie e tradizioni in un afflato che parla allo spirito anche laddove la specifica dedicazione è estranea al culto. Così sono esposte opere quali il recupero dell’acropoli di Salemi, in Sicilia, dove la chiesa madre fu fortemente danneggiata dal terremoto nel 1968 e quindi abbattuta, e Siza con Roberto Collovà l’ha rigenerata come assenza, segnata solo da un colonnato sulla piazza aperta ove, con le absidi superstiti diviene segno che sacralizza tutto lo spazio urbano.
 
di Leonardo Servadio