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Sironi, cacciatore d’eterno

La solidità dei volti, delle pietre, delle periferie del pittore, ora protagonista di due mostre a Cherasco e a Padova, tradisce una chiara sete d’infinito. Il suo obiettivo – spiegava – era «ascoltare la voce di Dio nell’immenso spazio»

L’architetto (1922-1923), olio su tela

L’architetto (1922-1923), olio su tela

​C’è un dipinto di Sironi, San Martino (esposto alla mostra “Sironi, la grandiosità della forma” a Cherasco), che potrebbe stare non solo in un museo, ma anche in una chiesa. E non solo per un fatto estetico, ma anche per il suo insegnamento etico. San Martino (1930) appartiene al periodo espressionista di Sironi e a prima vista può non piacere. Alla fine degli anni Venti infatti l’artista attraversa una stagione in cui le figure, tracciate con pennellate violente e approssimative, tendono a disfarsi, dando vita a «personaggi deformati e dolorosi che sembrano dipinti col sangue», come scrive un critico proprio di quest’opera, quando viene esposta alla Quadriennale di Roma del 1931. Non siamo di fronte a una bellezza decorativa (nonostante la sapienza del colore, dove le dominanti tenebrose sono rotte da bagliori rossastri e da brevi chiarori), ma a una straordinaria forza espressiva. Come sempre nell’espressionismo, all’arte si arriva non attraverso l’armonia, ma attraverso il dramma: una strada certo più lunga, più ardua, dai risultati più dubbi, che però il Novecento ha percorso spesso. Non di rado con esiti alti, come in questo caso.
 
Ma abbiamo parlato di insegnamento etico. Il dipinto esposto alla mostra di Cherasco (accanto alla quale va ricordata quella di disegni “Sironi e l’Antico” a Padova) rappresenta san Martino di Tours che, durante una ronda di notte, incontra un mendicante intirizzito e gli dona metà del suo mantello. Di solito gli artisti hanno rappresentato san Martino ricoperto da una corazza, o comunque adeguatamente vestito, come è logico per un circitor, un ufficiale con compiti di ispezione e sorveglianza notturna. Sironi invece, per la prima volta nella millenaria storia dell’iconografia del santo, lo rappresenta nudo. È il segno di una carità radicale: del desiderio di Martino di non limitarsi ad aiutare il bisognoso, ma di condividerne totalmente la condizione di indigenza. Il santo, insomma, non dà qualcosa al povero, ma diventa povero anche lui. E, sembra dire il dipinto, se non arriviamo a una simile condivisione, a una simile immedesimazione, vana è la nostra carità......
 
di Elena Pontiggia