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Ritratto di un artista sul crinale

Piero moderno o medievale? Pittore puro o grande narratore? Uomo di corte o legato al mondo rurale? Le molte letture sono, a loro modo, tutte vere

​Piero della Francesca si colloca al centro della storia figurativa del Rinascimento con la fatalità e la semplicità di un fenomeno della natura, eppure se dovessimo dire qual è il vero carattere distintivo della sua arte, ci troveremmo in imbarazzo. L’artista che è l’immagine stessa della felicità creativa, che è sinonimo di pittura luminosa, appagata, senza contrasti, “senza eloquenza” (Berenson) e quasi senza storia – come molte volte è stato detto – contiene in sé, a ben guardare, tutte le possibili contraddizioni. Piero è il pittore della forma al punto che, nel primo Novecento, egli è nell’alone di Seurat, di Cézanne, del “ritorno all’ordine” e dei “Valori plastici”, e quell’orientamento di gusto, contestuale alla monografia di Roberto Longhi del 1927, contribuì non poco a renderlo celebre.
«In San Francesco è Piero e il suo giardino» e «Come davanti ad un giardin profondo io stetti, o Pier della Francesca» aveva scritto Gabriele D’Annunzio nelle Città del silenzio di fronte ai murali della Vera Croce nel San Francesco di Arezzo; e non c’è chi non veda come quel “giardino profondo” sia già la prefigurazione, vent’anni prima, della “sintesi prospettica di forma-colore”, la veloce formula definitoria dello stile pierfrancescano che Longhi consegnò alla sua monografia.
A un certo momento, nella storiografia critica del Novecento, Piero della Francesca è sembrato la dimostrazione perfetta, antica e perciò profetica, di una idea che ha dominato a lungo il nostro tempo: di come cioè la pittura, prima di essere discorso, sia armonia di colori e di superfici. Talora, sopravvalutando il suo formalismo, si è finito con il sottovalutare la sua capacità di cambiamento e persino il fatto che egli non è, dopotutto, un artista moderno.
Eppure Piero della Francesca è anche il pittore della pelle delle cose, delle armi splendenti, del pulviscolo d’oro sui capelli degli angeli (la Madonna di Senigallia nella Galleria nazionale delle Marche a Urbino), dell’ansa del Tevere nel quale si riflettono gli alberi e il cielo (gli affreschi della Vera Croce in Arezzo), delle nebbie argentee stagnanti nelle valli del Montefeltro (il Dittico dei Duchi agli Uffizi), delle nuvole toccate di rosa nell’alba della Resurrezione (il murale celebre del Museo civico di Borgo Sansepolcro). Egli è dunque il pittore dei “minima” di verità e di natura come lo erano, negli stessi anni, i suoi colleghi fiamminghi; ma egli è anche, e senza contraddizione, il grande teorematico: «miglior geometra che fusse ne’ tempi suoi» secondo il Vasari, «monarca» della pittura per Luca Pacioli, mentre i suoi scritti teorici contribuirono assai per tempo a circondare il personaggio di un alone di alta e quasi esoterica scientificità. Alla fine del Quattrocento Giovanni Santi nella sua Cronaca definisce Piero della Francesca “antiquo” e l’aggettivo sembra evocare suggestioni di arcana sapienza.

di Antonio Paolucci