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Paradosso Giappone tra antico e moderno

I rapporti tra Sol Levante e Occidente sono un intrico di sospetto e attrazione

​Nell’immediato secondo dopoguerra l’antropologa Ruth Benedict si poneva con precisa volontà sistematica, nel suo The Chrysanthemum and the sword edito a Boston nel 1946, il problema del “paradosso Giappone”, antico e modernissimo, innamorato dell’Occidente (e particolare degli Stati Uniti d’America) e a esso profondamente ostile, che appariva chiuso nella sua schizofrenia e prigioniero del passato non meno che del presente (da pochi mesi era avvenuta l’apocalisse di Hiroshima e di Nagasaki), legato alla tradizione eppure proteso verso un futuro che mostrava di amare e di saper gestire. Alla Benedict il Giappone appariva il Paese del “but also”: questo, ma sempre anche quest’altro. Come potevano le cose essere arrivate a tanto? Come poteva esser andato costruendosi quell’inquietante unicum antropologico che non mancava di riversare a sua volta sulla cultura occidentale tanti e non meno inquietanti esiti?
La risposta, in ampia misura, sta nella storia stessa del Giappone: unica anch’essa, di un Paese a lungo vissuto in un isolamento per tanti versi senza dubbio “splendido” e che tuttavia, in almeno tre casi – tutti drammatici ancorché molto diversi tra loro – è stato costretto ad aprirsi al “diverso da sé”, sempre traendo da quelle aperture risultati di mutamento profondo per un verso, di paradossale rafforzamento identitario per un altro. L’introduzione del buddhismo e l’apertura alla Cina tra VI e IX secolo prima; l’apertura all’Occidente europeo e l’introduzione del cristianesimo (ben presto violentemente avversato) poi, nel Cinquecento; e infine il dapprima forzato e in seguito complesso rapporto con gli Stati Uniti d’America, a partire dal drammatico biennio 1853-1854 con tutto quello che ne era derivato, a cominciare dalla “rivoluzione occidentalizzante”, che fu anche – rieccoli, Ruth Benedict e il suo but also! – una “restaurazione imperiale”, nel periodo Meiji. Per giungere infine, attraverso la forte affermazione nazionalista, la tragedia del 1937-1945 e la rinuncia al carattere divino dell’imperatore nel 1946, all’ulteriore vorticoso sviluppo iperoccidentale/iperorientale di un Paese che ha prodotto il “fenomeno Mishima”, le fantasie sado-maso-porno-dark-horror della sua letteratura e del suo cinema e l’affascinante assurdità postmoderna testimoniata con stralunati occhi americani da film come Lost in translation.
di Franco Cardini