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Orvieto, una rupe e mille storie

Dagli Etruschi al Corpus Domini,i tanti volti del gioiello nato sopra il tufo

​di Federico Geremei
Due famiglie, una guelfa e l’altra ghibellina. Tre torri ancora in piedi, altrettanti presìdi di supremazia verticale. E quattro quartieri dai vessilli sgargianti. L’impasto-base dell’oleografia medievale – borgo da cartolina e calamita da frigorifero (la rupe ridotta a un impreciso skyline magnetico) – a Orvieto non manca. Anzi, ne sublima la quintessenza. Idem per i suoi atout più celebrati: pietra e affreschi, maioliche, trine e vino, etruschi e jazz. L’urbs vetus pare tuttavia vivere la propria aura basculando tra il blasé compiaciuto e un sardonico broncio, senza derive contradaiole e col minimo sindacale di campanilismo. Ha trovato, superandola, la sintesi tra l’autentico e il turistico? Scandiamo il secondo – ora palco o quinta, ora platea – in cerca del primo. La sua natura è porosa come il tufo che la sorregge, impermeabile e compatta quanto l’argilla su cui poggia. Cardiamo allora il fil rouge di un tour lungo cerniere – geologiche, geografiche e geometriche, d’arti e di fede – e ribaltamenti temporali. Sopra, dentro e sui bordi della rocca. E intorno, dove Umbria, Toscana e Lazio annodano confini e stendono visioni tra crinali e calanchi.
Partiamo dalla sutura più lineare, letteralmente. Sono passati centotrent’anni tondi da quando la funicolare è stata costruita, un tracciato di mezzo chilometro per collegare due àmbiti distinti ma non distanti (il dislivello è di centocinquanta metri): lo scalo della stazione ferroviaria a valle, un piazzale in cima. Niente volt, ampere o watt da dosare per l’andirivieni di carrozze, solo l’ingegno del sistema di “livellette compensate”. La meccanica dei fluidi è stata sufficiente per decenni, poi lo stop e nel 1990 la riapertura: dismesse le vasche, si è passati all’elettricità. L’acqua resta però a guardia di un altro passato, in fondo al pozzo di San Patrizio. L’ingresso è a pochi metri e la cerniera lì sotto si fa doppia, attorcigliata nelle due rampe di scale a elica disegnate da Antonio da Sangallo il Giovane (aveva appena terminato i lavori alla Zecca papale e in contemporanea seguiva quelli del palazzo apostolico di Loreto). Sfioriamo la retorica per azzardare due rimandi, senza muoverci dalla “parte bassa della parte alta”. Quello con la terra di cui saint Patrick è patrono echeggia trame ulteriori, le volute del merletto d’Irlanda, che a Orvieto ha conosciuto i fasti di talenti virtuosi, dal minuzioso dell’opera d’arte all’ordinario (si fa per dire) del manufatto artigianale. Il secondo è nel nome della piazza, Cahen. D’origine belga, questa famiglia di banchieri e marchesi ebrei ha intrecciato, illuminata e spavalda, titoli nobiliari e opulenza alle vicende del territorio orvietano. Due luoghi su tutti: la bella villa liberty sui pendii di Allerona – l’Amiata sullo sfondo, due giardini ornamentali (giapponese e all’italiana) in primo piano – e Torre Alfina, col castello e il mausoleo nel vicino bosco del Sasseto.