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Oro, il colore dell’alba

Da Giotto a Rouault, i pittori hanno dipinto la Speranza come un’immagine carica di luce

​Una delle più belle rappresentazioni della Speranza si deve a Giotto. Si trova nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Giotto la rappresenta insieme alle altre due Virtù teologali e alle quattro cardinali, tutte a monocromo, e la raffigura come una donna che tende le mani verso un angelo da cui verrà incoronata. Il pittore del Mugello elimina dunque gli attributi tradizionali della Speranza, che erano sostanzialmente due: il ramoscello d’ulivo, allusione alla fine del Diluvio Universale, e l’ancora, che si riallaccia a un passo della Lettera agli Ebrei di san Paolo: «Nella Speranza abbiamo come un’ancora della nostra vita, sicura e salda» (Eb 6,19). Non c’è bisogno di segni convenzionali per essere eloquenti. La figura della donna, che occupa diagonalmente l’intero spazio della finestra cieca, è tutta risolta nel suo slancio ascensionale, che è insieme fisico e metafisico. La Speranza qui non è una persona in preghiera – come due secoli dopo la dipingerà, per esempio, Raffaello, che la porrà tra due angeli anch’essi oranti – ma è uno slancio di preghiera che diventa persona. Ma non solo. Agli Scrovegni la Speranza segue, e non precede, la Carità, come fosse un coronamento delle Virtù teologali. Inoltre Giotto, come usava nelle cattedrali francesi romaniche e gotiche, contrappone le virtù ai vizi e idealmente le mette di fronte la Disperazione, raffigurata come una donna impiccata. Alla tensione verso il Cielo che rende leggeri e liberi si contrappone la pesantezza della materialità che spinge verso la terra e la morte.
Non si può però parlare di speranza senza citare l’immagine di Colei che, per dirla con Dante, è «di speranza fontana vivace». Nelle raffigurazioni di Maria, emblema della speranza come della bellezza, ne sceglieremo due tra le infinite possibili. La prima è quella, splendente, del Tabernacolo dei Linaiuoli, dipinto nel 1432-1433 dal Beato Angelico e ora nel Museo di San Marco a Firenze. È un’opera mirabile per le dimensioni imponenti, ma ancor più per la ricchezza dei tessuti, dei broccati, dei tendaggi che servivano a fare “pubblicità” alla committenza, l’Arte dei Linaiuoli appunto – anche san Marco ritorna più volte nelle ante e nelle predelle perché era il patrono della corporazione –, ma soprattutto infondono nel Tabernacolo una luce abbagliante.

di Elena Pontiggia