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Nicola Samori la bellezza ferita

Il dialogo tra grande arte e nuove visioni: venti anni di corpo a corpo con la pittura

​Giovanni Gazzaneo


Si può dare nuova vita alla pittura ferendola, scavandola, sezionandola, ri­­portandola all’amalgama dei colori prima della composizione, prima delle velature, prima della forma, prima dell’armonia? Si può, a patto di non tradire la pittura. Nicola Samorì alla pittura è rimasto fedele, anche se la sua è una fedeltà tormentata, una fedeltà sempre alla ricerca di orizzonti nuovi, di sentieri inesplorati. Il suo amore per la pittura è un amore che non conosce misura. È una passione che arde, e fa sentire una fame e una sete mai appagate. Una passione che libera, e dà il coraggio e la forza di cercare, che è poi la stessa cosa di rischiare e sacrificare…
Samorì crea in un continuo corpo a corpo con la pittura. In un confronto geniale con la storia dell’arte fiorisce la novità. Prima nel segno della perfezione assoluta del soggetto che la storia dell’arte gli consegna: l’opera amata viene ripensata e realizzata nuovamente con un virtuosismo che spesso supera l’antico maestro. Poi ecco gli “sfregi”, il gesto che rompe l’armonia, che dilania un volto, scava un corpo, diventa colatura, distacco, grumo, taglio… Samorì crea un’apertura dove prima c’era un tutto risolto, una contraddizione insuperabile nella grazia di un originale antico e rinato. In questo sfilacciarsi, in questo piegarsi (e piagarsi) l’opera “resiste” nonostante la ferita. L’immagine non si dissolve – non siamo mai­ di fronte a una semplice cancellatura o a un taglio concettuale – ma assume una potenza iconica, una forza nella presenza/assenza. Accartocciata, ustionata, a brandelli l’opera invoca la sua esistenza e attrae lo sguardo in una profondità inattesa e vitale. Qualcosa di imprevisto accade e quella bellezza ferita ci prende, ci scuote, ci invita alla contemplazione che turba e interroga. Opere che rimandano alla violenza della natura e degli uomini, creature gravide del mistero del dolore. Samorì ci guida tra i dipinti che abbiamo scelto per queste pagine: «I miei lavori non sono mai repliche fedeli di opere antiche: le misure sono differenti, le tonalità sono diverse, la pennellata pure. Spesso le omissioni sono non meno rilevanti di quanto decido di trascrivere. Il concetto di copia si disinnesca subito ed è più corretto parlare di traduzione e di riscrittura. Quando scelgo un’opera di un pittore del passato a guidarmi è sempre la possibilità di riscriverne forma e contenuto iniettando in un codice molto chiaro (il barocco, la scuola fiamminga, il manierismo) il “senno di poi”, la conoscenza di quanto di rimarchevole è accaduto nella storia della pittura. Non una summa degli accadimenti (cosa impossibile), bensì il conflitto avvincente fra una categoria di gesti e un’altra, ad esempio fra la tornitura del modellato fiammingo e il gesto brutale della pittura d’azione».