Nel paese di Verdi
Viaggio nelle terre del compositore, che di sé diceva: «Sono stato, sono e sarò sempre un paesano delle Roncole»
la casa natale del maestro a Roncole Verdi: la facciata
Roncole Verdi, la chiesa di San Michele dove Verdi fu battezzato e giovanissimo imparò a suonare l’organo
la casa natale del maestro a Roncole Verdi: la cucina
la casa natale del maestro a Roncole Verdi: l’ampio ambiente posteriore che fu rimessa per cavalli (nella casa durante gli anni giovanili del musicista funzionava un’osteria gestita dal padre)
Busseto, il Teatro Verdi opera dell’architetto locale Giovanni Sivelli
Busseto, Palazzo Pallavicino
Giovanni Boldini, Ritratto di Giuseppe Verdi con cilindro (1886), olio su tela. Busseto, Palazzo Pallavicino, Museo Nazionale Verdi
Busseto, la chiesa di Santa Maria degli Angeli frequentata da Verdi sin dalla gioventù
Busseto, Casa Barezzi: il salone dove Verdi debuttò in pubblico nel 1830. In primo piano il pianoforte originale del compositore
Busseto, Casa Museo Barezzi: spartito originale del maestro
Busseto, Casa Barezzi: la copertina della “Domenica del Corriere” del 30 ottobre 1899 illustrata da Achille Beltrame, raffigurante Verdi
Busseto, la storica “Salsamenteria Baratti”, mecca gastronomica locale in voga dal 1873
Busseto, arredo d’atmosfera verdiana alla “Salsamenteria Baratta”
Luigi Secchi, Giuseppe Verdi (1913), bronzo. Busseto
Villanova sull’Arda, Villa Verdi: i mobili originali della stanza 157 del Grand Hotel et de Milan, l’albergo milanese dove Verdi morì il 27 gennaio 1901
«Questi veneziani si aspettano chissà che cosa», aveva dichiarato Giuseppe Verdi in occasione della prima di Ernani al Teatro La Fenice (1844). E aveva ragione. Delle cinque opere riservate al debutto in laguna, fra il 1844 e il 1857 (Ernani, Attila, Rigoletto, La traviata e Simon Boccanegra in prima versione), La traviata, oggi considerata uno dei vertici della sua stagione di mezzo, fu quasi un fiasco. Solo il terzo titolo, Rigoletto (1851), ebbe un trionfo popolare grandissimo. Si racconta che i gondolieri – la cosa non stupisce chi conosce l’animo umano: e Verdi lo conosceva molto bene e sapeva quali tasti battere – fischiettassero e canticchiassero per la delizia dei turisti imbarcati per piazza San Marco le note malandrine di La donna è mobile, che è il biglietto da visita dello scapestrato Duca di Mantova, novello Don Giovanni, piuttosto che quelle dolenti del povero buffone di corte.
Nel gioco dialettico dei contrasti – in teatro il vizio vince spesso sulla virtù – non meraviglia che l’aria malandrina sia diventata con il tempo il tratto più caratteristico, l’emblema più accattivante della verve verdiana. Fluendo poi, per così dire, dal Canal Grande agli odierni canali discografici e televisivi che ingombrano il nostro inconscio collettivo; e catturando ancor prima, nei primi decenni del Novecento, l’incondizionato apprezzamento di Igor’ Stravinskij: «C’è più valore e inventiva – dichiarò – nell’aria della Donna è mobile che nella retorica e nelle vociferazioni della Tetralogia» di Wagner. Frase talmente fuori dalle righe del bon ton da fare inorridire i fan di tutti i festival di Bayreuth
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di Sandro Boccardi