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Munch, il grido dell’assenza

A Genova l’arte del più grande pittore norvegese, un gorgo inestricabile che sfida ogni osservatore ponendolo di fronte all’incessante domanda sul perché

​«In fondo al grande letto matrimoniale c’erano due piccole sedie da bambini poste l’una accanto all’altra; vicino a loro si stagliava contro la finestra la figura alta e maestosa di una donna in piedi. Disse che stava per andar via, anzi che doveva andar via. Chiese ai bambini se sarebbero stati tristi quando lei fosse andata via e loro promisero che sarebbero stati con Gesù e che si sarebbero incontrati nuovamente in cielo. Non capivano bene cosa stesse accadendo ma percepivano che tutto era molto triste e così cominciarono a piangere e a singhiozzare. Era buio e triste lungo la scala. La tenevo per mano e la stringevo, ma non riuscivo a tenerla sufficientemente forte. Le domandai perché camminasse così lentamente: si fermava a ogni passo e sospirava affannosamente […]. Nella stanza vicina c’era un albero di Natale buffo e malinconico nello stesso tempo. Gesù aiutami».
 
L’infanzia e la fanciullezza di Edvard Munch (1863-1944) videro morte e malattia da vicino, sempre. Madre, sorella, padre. E la follia, che dal ramo paterno giunse alla sorella, lo attendeva. «Malattia e pazzia sono stati gli angeli neri della mia culla». Simbolista per nascita e per elezione, mancato ingegnere, Edvard Munch sta, con la sua opera, sul crinale dei secoli che videro l’autobiografia trasformarsi in pittura, e questa attingere a tutto quel che il Novecento avrebbe portato in dote: l’espressione della sofferenza, dell’inconscio, dei sogni e degli incubi, del lato oscuro della vita.....
 
di Beatrice Buscaroli