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Modigliani Morandi. Cantare le cose comuni

​Due mostre in corso in Italia in questi mesi (una a Mantova, a Palazzo Te, dedicata a Morandi, l’altra a Genova, a Palazzo Ducale, dedicata a Modigliani) presentano due artisti lontanissimi tra loro. Modigliani, figura maudite secondo una certa leggenda, vive a Parigi tra alcol e assenzio e scompare a 35 anni. Morandi esce poche volte da Bologna e chiude gli occhi a 74 anni, dopo una vita regolarissima, tanto da essere soprannominato il “monaco di via Fondazza” (la via dove abitava). Modigliani ha amori travolgenti e tragici: quando nel gennaio 1920 si spegne, la sua compagna Jeanne Hébuterne, incinta di otto mesi, si toglie la vita gettandosi da una finestra della casa dei genitori. Morandi invece non si sposa mai, non ha avventure romantiche e vive quietamente, circondato dall’affetto devoto delle tre sorelle nubili.
Anche le loro opere non potrebbero essere più diverse. Eppure, nonostante la distanza che li separa, affrontano in modo paradossalmente vicino due temi ugualmente cruciali: l’oggetto e la figura. E mostrano che nella vita non c’è niente di comune, tanto meno le cose comuni.
Ci spieghiamo meglio. Guardando le innumerevoli composizioni di vasi, bottiglie, fiori, paesaggi, sempre uguali e sempre diverse, dipinte da Morandi, torna in mente quello che lui diceva: «Non c’è niente di più astratto del reale». E infatti ha dipinto cose banali, dimostrando che non esistono cose banali.
Ha scritto un artista contemporaneo, Claudio Olivieri: «Ci si affanna alla ricerca dell’esotico perché non sappiamo più vedere ciò che quotidianamente è intorno a noi. Il nostro paesaggio ci è indifferente perché non sappiamo dove viviamo. I pittori, invece, hanno saputo far tesoro della quotidianità, scovando l’incanto dentro l’abitudine, nel più domestico dei soggetti come Morandi nel cortile di via Fondazza, Bonnard nella sua stessa casa o Monet nell’artificio ossessivo del suo giardino. Esotico, o meglio misteriosamente diverso, diventa quel muro visto per tanti anni o quel ramo che, fino a ieri, sembrava destinato solo a darci un poco d’ombra». È quel misteriosamente diverso, quell’incanto dentro l’abitudine, appunto, che Morandi ha cercato nei suoi quadri. Non per niente, quando una sua opera è pubblicata per la prima volta (nel 1919 su “Valori Plastici”, che era allora la rivista della pittura metafisica) Raffaello Franchi vi individua «tutto l’incanto di un’apparizione». In quel periodo, dopo aver dipinto nature morte con manichini e poliedri influenzate da de Chirico, Morandi stava già approdando a composizioni incentrate su elementi meno ermetici.

di Elena Pontiggia