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Matera, il giardino di pietra

L’archetipo della nuova Gerusalemme: da Pasolini a Gibson il fascino dei Sassi

​Giuseppe Lupo


L’immagine che più si avvicina alla città di Matera è quella del cantiere in costruzione: un’enorme area edilizia dove i mastri muratori hanno deciso di ammutinarsi abbandonando la cazzuola a terra, il frattazzo imbrattato e i ponteggi ancora montati. Chi terminerà il lavoro se essi sono fuggiti? E soprattutto da quale tempo è stato innalzato il cantiere? Brueghel il Vecchio non conosceva Matera, ma potrebbe averla intuita o sognata quando si accingeva a dipingere la Grande Torre di Babele, nel 1563. Stessa erosione, stessa incompiutezza: una tavola di pieni e vuoti, di porte e finestre nere come buchi, che sottraggono qualcosa alla vista e difficilmente saranno colmati. Basterebbe una poesia di Vittorio Bodini a descriverla: «Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado».
Bodini non era nato a Matera, però conosceva il barocco leccese, che presenta qualche tratto similare con la zona di abitazioni cresciuta sul ciglio dei Sassi, dove sporgono i palazzotti borghesi di tufo giallo prima che inizi la discesa. L’horror vacui avvolge nel suo sguardo d’insieme e non esiste strumento di difesa per riempire la fame di materia che è già fin troppo sovrabbondante. Soprattutto non è il trascorrere del tempo che erode dal di dentro la materia ma, al contrario, sono i vuoti che sembrano aver attratto materia intorno a sé, come succede per i buchi neri nell’universo che divorano i pianeti e li annullano fino a renderli invisibili.
I Sassi, più che tutti gli altri quartieri, vivono in questo eterno contrasto tra materia e antimateria, si aggrappano alle risorse della razionalità e dell’ordine nella speranza di sfuggire alla conformazione urbanistica che ne ha fatto un cono rovesciato: non il quadrato del castrum militare e nemmeno la perfezione del cerchio a cui rimanda la Città del Sole, ma un’indecifrabile spirale tracciata con una penna dall’inchiostro singhiozzante, una deforme chiocciola di vie e di pietre per puro caso avvitata intorno a un invisibile chiodo che sta al vertice delle zone alte. Come in ogni labirinto, non conta quando e da dove entrare, ma come uscire. Gli accessi sono tutti buoni per perdersi e di agevole utilità: a volte si tratta di rampe sconnesse che poggiano allo spigolo di un vicolo per trovare l’occasione giusta per tentare l’abbrivio, a volte sono gomiti di pietre strozzate e ammonticchiate che si attaccano alla curvatura di un arco e lo abbandonano in prossimità della prima curva, altre volte semplicemente terrazze pavimentate da mattoni quadrati e con qualche ciuffo d’erba, loggiati afflitti dalla solitudine e dall’incuria che a un certo punto, non si sa come e perché, mutano la loro forma in tetti e poi, da tetti che erano, assumono la lunghezza di una strada percorribile non solo a piedi.
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