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Marco Paoli, la luce oltre la corteccia

​Ho incontrato cercatori di terre inesplorate, cercatori di comete e di pianeti, soprattutto cercatori di anime e di Dio. Ma non avevo mai conosciuto cercatori di alberi. Marco Paoli, fotografo toscano affetto da mal d’Africa, è uno di loro. Viaggiatore instancabile nel continente nero, nelle Americhe e in Asia in nome degli alberi: sono loro il suo soggetto prediletto da oltre trent’anni, e prima ancora il suo amore più grande. Le parole con cui descrive eucalipti, sicomori o gli alberi sacri per buddhisti, induisti e animisti sono parole di un cuore innamorato. Di questi “ponti” radicati ben dentro la terra e proiettati nel cielo infinito non vuole l’immagine, ma il ritratto. La sfida per lui è raccogliere in un solo scatto altezza, profondità, bellezza, vigore, forma, soprattutto vita, quella loro e quella che donano a tutti gli abitanti del pianeta. Gli alberi respirano e insieme sono il nostro respiro, sono frescura d’estate e fuoco d’inverno, sono storia e leggenda, casa delle ultime tribù d’Amazzonia ma anche di cittadini che scelgono di essere “bio e sostenibili”. «Gli alberi – racconta Paoli – fanno parte di me. Sono nato in campagna, a Tavarnelle Val di Pesa. La mia infanzia l’ho passata in mezzo agli ulivi e gli ulivi erano i miei orizzonti. Ricordo la gioia nell’arrampicarmi su per i tronchi, puntando ai rami più alti, e nel costruire capanni sulle querce. Erano il mio gioco preferito. Ho imparato a riconoscere gli alberi e a chiamarli per nome, a scoprire alcuni loro segreti». Paoli ha fatto tante cose nella vita e tanti mestieri: da assistente alla regia per gli spettacoli dei Giancattivi a fotografo di scena a Cinecittà prima, e nei teatri poi. È autore di grandi volumi come Silenzio, Ballads, Ethiopia. Ma il richiamo della foresta (e anche del semplice arbusto) in lui è sempre stato forte e chiaro: «Gli anni passavano e questo amore incondizionato verso gli alberi è rimasto. Allora ho cominciato a studiarli e più cose imparavo, più cresceva in me una grande riconoscenza e insieme il piacere di contemplarli, di toccarli, di sentirli, di accarezzare la loro corteccia, di percepire lo scorrere della linfa. Gli alberi mi emozionano. Provo stupore per la loro bellezza. C’è un bisogno fisico, una passione, una relazione profonda che vengono prima della fotografia. La fotografia è una parte, un’espressione di questa relazione che non finirà mai, come non finirò mai di ritrarli». Insomma tra Paoli e gli alberi è attrazione fatale. «Gli alberi hanno una loro intelligenza, ricordano, dormono, imparano, in qualche modo scelgono. Sanno comunicare e mandare messaggi: guidano le api nei loro voli e le indirizzano, come  sapienti consiglieri, verso i fiori. Ho cominciato a esplorare il loro mondo sotterraneo: quanto non vediamo è un universo misterioso. Gli alberi vivono in una doppia dimensione, sconfiggono la gravità e uniscono davvero la terra al cielo. Senza alberi noi non potremmo vivere, ma gli alberi senza di noi continuerebbero a esistere». In questo viaggio tra radici e fronde la sua inseparabile compagna è una Leica monocromatica. Il bianco e nero permette a Paoli un’essenzialità e un rigore altrimenti impossibili. Usa grandangoli da 14-15 millimetri, difficilmente “osa” oltre il 21, e questo lo costringe a fotografare molto da vicino. I suoi straordinari ritratti possono nascere anche grazie a uno sguardo dall’alto, aiutato dall’uso di cavalletti che raggiungono anche nove metri. «Quando guardo un albero cerco la parte più bella da fotografare: osservo la forma del tronco, la chioma, la disposizione dei rami, ma soprattutto il gioco di luce, in particolare nei boschi e nelle foreste. Ci sono alberi molto fotogenici e altri meno. In Africa è più facile fotografarli perché ci sono alberi che si innalzano in una solitudine assoluta. In Italia è molto più difficile e devi andare a cercarli: penso ai pini loricati del Pollino, oppure a qualche quercia sull’Amiata». Gli alberi immortalati da Paoli sono sguardi colmi di stupore, promesse di felicità, un invito a dire grazie.
di Giovanni Gazzaneo