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Malevic, icone al quadrata

A Bergamo una mostra sul grande pittore russo che raggiunse l’astrazione meditando il sacro

Ragazze in un campo (1928-29), olio su tela. San Pietroburgo, Museo di Stato Russo

Ragazze in un campo (1928-29), olio su tela. San Pietroburgo, Museo di Stato Russo

​Padre del suprematismo, cioè di quella astrazione assoluta che voleva eliminare dal quadro ogni figura e ogni oggetto, per dipingere il sentimento del nulla, Kazimir Malevic (Kiev, 1878 - San Pietroburgo, 1935) è uno dei maestri dell’arte contemporanea. Oggi possiamo ripensare alla sua figura grazie a un’eccellente mostra aperta alla GAMeC di Bergamo, a cura di Eugenia Petrova e Giacinto Di Pietrantonio. Su di lui, comunque, sappiamo molto, dopo che nel 1997 è stata ritrovata una sua autobiografia di cui nessuno sospettava l’esistenza. Scritta nel 1933, due anni prima della morte, era rimasta incompiuta per l’aggravarsi delle condizioni fisiche dell’artista. Malevic fece in tempo a comporre solo una trentina di pagine, che non vennero mai pubblicate. Il testo era stato consegnato al critico Nicolaj Chardziev, che stava lavorando a una storia del futurismo russo e aveva chiesto a Malevic una testimonianza sul decennio prima della rivoluzione (1907-1917). Negli anni Sessanta Chardziev lo aveva dato ad Antonello Trombadori, tra le cui carte è stato ritrovato.
È un’autobiografia che non sembra affatto quella di un artista d’avanguardia, anzi è lontanissima dagli stereotipi del moderno. Nelle sue pagine si avverte un profumo di vecchia Ucraina, perché Malevic parla della sua nuova pittura, ma parla anche di pittori di icone, di notti di luna, di scene di vita contadina, di piatti fumanti di borsch (la minestra grassa di Kiev). E si ritrae non come un artista contemporaneo, ma come un pittore senza tempo, attratto dal Medioevo e da Cimabue, dai costumi delle donne di campagna e dai filatoi affrescati dai contadini. Racconta, per esempio, che andava a spiare i pittori di icone nelle chiese, che ammirava i galletti di legno intagliato nelle izbe, che amava i fiori dipinti dalle contadine e i lavori di uncinetto della madre.
Insomma, Malevic ci racconta una storia diversa. Lui il passato lo guarda, eccome. Certo, preferisce le icone al Rinascimento. Pensa che Giotto sia più grande di Raffaello e che i Bizantini siano più intensi dei barocchi. Al classicismo sostituisce un primitivismo attento anche all’artigianato popolare. Ma non c’è nelle sue parole nessuna tabula rasa, nessuna retorica rivoluzionaria. La sua stessa astrazione (la volontà, cioè, di fare pittura solamente col colore e le forme geometriche) la intende non come un guardare avanti, ma indietro: guardare alle icone, appunto, che non rappresentavano il visibile, l’anatomia, la prospettiva, ma l’invisibile, l’infinito, il sentimento di Dio.