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Ma l’anima dove si nasconde

«Padre Bruno ci disse: “Avete dato un corpo a un bambino, adesso fatene un’anima”. Un’anima? E dove vado a trovarla un’anima?»

​Giacomo Poretti
Appena nacque nostro figlio, venne a trovarci in ospedale padre Bruno, una carissimo amico, mio e di mia moglie, un vecchio sacerdote che qualche anno prima ci aveva sposati. Non seppe resistere alla tentazione e, come tutti gli anziani che si trovano davanti a un neonato, cominciò a sorridergli e a scherzare con la voce, cercando di attirare l’attenzione di quell’esserino che aveva solo qualche ora di vita. Ci guardò, guardò nostro figlio, poi disse: «Bene, avete fatto un corpo, ora dovrete farne un’anima!». Salutandoci sorrise e uscì dalla stanza.
Che cosa voleva dire “farne un’anima”? Io e mia moglie ci scambiammo uno sguardo interrogativo. I nove meravigliosi mesi di laboriosa gravidanza, e tutte quelle ore faticose del parto, l’avevano sfinita: umanamente non le si poteva chiedere nessun altro sforzo in più in quel momento, anche perché quei 2 kg e 950 gr di esserino ai nostri occhi erano bellissimi, e benché le dimensioni prefigurassero un avvenire da brevilineo, eravamo convinti che non mancassero di nulla.
In quel momento entrò il medico per accertarsi delle condizioni di mamma e figlio, e mentre annotava qualche dato sulla cartella clinica la mia ragionevolezza occidentale si distrasse e mi ritrovai a chiedere: «Scusi, dottore, dopo quanti giorni si manifesta l’anima, prima o dopo i denti da latte, e da che cosa ce ne accorgeremo, da qualche prodromo? Tipo febbre o colichette?». Lui prima mi fece sedere, mi auscultò il polso, mi obbligò a inghiottire una pastiglia e infine disse: «Deve essere stata un’esperienza un po’ scioccante per lei assistere al parto, chissà da quante ore non riposa, e poi tenere fra le braccia il proprio figlio!».
In effetti prendere fra le braccia il proprio figlio per la prima volta era stata un’esperienza terrorizzante, come quella di salire dietro a Sebastian Vettel sulla sua Ferrari mentre sta disputando il Gp di Montecarlo. Mi era sembrato di avere avuto in braccio la cosa più fragile dell’universo. Altro che un figlio, mi sembrava che stessi cullando una bomba atomica: non mi muovevo, non respiravo, non contraevo un muscolo. Quando poi l’infermiera me lo tolse dalle mani facendolo roteare come un giocoliere, sperai di riabbracciare mio figlio il giorno in cui avrebbe preso la laurea.
Cosa è che diceva il prete? Farne un’anima? Dopo la prima ecografia, che ci rivelò essere un maschietto, ricordo che fantasticai di farne un’avvocato, un laureato in scienze economiche, un vincitore del Pallone d’oro con la maglia dell’Inter, tutt’al più un architetto, uno chef da tre stelle Michelin, un influencer!