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L’arte segno della grazia

Alla Settimana della Bellezza a Grosseto le mostre di Congdon e Lippi due maestri appassionati di Cristo

William Congdon fuori dall’eremo

Nel 1967, cinquanta anni fa, William Congdon tenne una personale alla Betty Parsons Gallery di New York. Fu la sua ultima personale negli Stati Uniti, accolta con molta freddezza. Oltreoceano la notizia della sua conversione al cattolicesimo, avvenuta nel 1959 ad Assisi, aveva suscitato sospetto. Da molto tempo Congdon aveva scelto di vivere in Italia, ma questo non era stato un problema: anzi, a Venezia l’incontro con Peggy Guggenheim aveva significato un momento importante della carriera. L’adesione alla fede cattolica, invece, per molti fu l’equivalente di un suicidio artistico. L’attenzione critica scemò rapidamente, facendo scivolare Congdon e la sua pittura potente e ferita nel dimenticatoio. Una condizione che lo stesso artista non disdegnò: la scelta di una sorta di eremitaggio a tu per tu con il Crocifisso fu la scelta cosciente di uscire da un sistema che divora l’arte gettandola nelle fauci del mercato. Per William Congdon invece la pittura era (e da sempre) la sua casa. Impossibile uscirne: lì tutto ciò che lo investiva e lo muoveva doveva avere luogo, maturare, scontrarsi, esaurirsi, rinascere.
Che ne è oggi di William Congdon? Molto è stato fatto, e meritoriamente, per farlo emergere dall’eremo, ma sotto altri aspetti in cinquant’anni il pregiudizio su di lui non è cambiato. È notissimo presso il pubblico cattolico, spesso interessato, però, a lui soprattutto in quanto “artista cristiano” o “artista convertito”, mentre pubblico e critica laici lo ignorano o lo guardano con sospetto proprio perché “artista cristiano”. In tutto questo la sua pittura, che è il solo punto su cui dovrebbe essere giudicato, rischia di passare in secondo piano. Marco Vallora, in un testo sull’analogamente rimosso (ma in misura minore di Congdon) Conrad Marca-Relli, si scagliava contro «le categorie così impressionistiche e quasi gossip» con le quali si giocano i «misteri di valutazione artistica, tanto profondi, insondabili, che sono però anche in fondo anche così superficiali e ricorrenti, quasi ciclici nella storia della cultura». E aggiungeva: «Anche a William Congdon, un altro grandissimo della pittura americana, trapiantato in Italia e disinteressato del mercato capita qualcosa di molto simile: e qui è ancora più difficile risalire la china dell’oblio, essendo in gioco un personalità quasi francescana e distaccata dal mondo e l’ulteriore problema della fede, che invece non fa schermo al laico Marca-Relli». È urgente che Congdon riacquisti il posto che gli spetta nell’arte del ’900. E perché questo accada è necessario che torni a parlare solo attraverso la forza di una pittura che scava nella carne delle domande, dei dubbi e delle speranze dell’uomo contemporaneo.

 

La dolce veglia di Massimo Lippi

Massimo Lippi è scultore per eccellenza della speranza, perché la materia modellata dalle sue mani è il fuoco. È evidente nel guizzare delle sue sculture come una fiamma, o nel loro vibrare come il profilo di un oggetto lontano, sperso nella campagna nel più torrido dei meriggi toscani. Il metallo avvampa al contatto con l’aria, si tinge dei colori della Città celeste. I suoi Cristi in croce esplodono già della Resurrezione. Così anche i suoi disegni paiono crepitare incisi sulla pietra e vergati sulle carte. Lippi vi riversa la forma del suo fuoco interiore, inestinguibile perché meravigliosamente cocciuto e bambino.
«La grande scultura» che «deve stare nel palmo di una mano», come ama ripetere, è simile a un lumicino capace di illuminare senza sforzo apparente una grande stanza buia. I suoi uccellini che portano nel bronzo il canto pasquale sono essi stessi voce della speranza: una speranza semplice, contadina, che sa di creta, di frantoio, di paglia. La sua forza gli sale ai piedi direttamente dalla terra. Come Anteo ne morrebbe se ne fosse staccato. Ma soprattutto Lippi è un profeta della speranza. Come un profeta la proclama, anche con amarezza, a chi non vuole ascoltare e come un profeta non può fare a meno di dire la parola, per quanto ne possa essere spaventato o pretenda di esserne indegno. Lo spinge un’urgenza che, come l’arte, gli giunge misteriosa e necessaria. Lo fa nella scultura e, poiché la fiamma è una lingua, nella poesia. Come quella, inedita, scritta per la mostra di Grosseto, in cui prima dice cosa «speranza non è» («Vedo stamani la vuota speranza / de le genti / è la campana che s’agita nell’aria / senza batacchio / fiato lezzo / bocca sdentata / che lustra il sonno a le farfalle»), per poi affermare che speranza è «onesta flebile voce / che trapassa mura / calmo veliero sotto la luna».
Massimo Lippi sa cosa è tragedia, ma spera contro ogni speranza e per questo si abbandona docilmente a questa “flebile voce” e la riecheggia nei piccoli frutti rossi e nei boccioli che gettano ovunque nella sua scultura. Anche le croci sembrano germogliare come un fiore da un virgulto. La sua opera è una grande primavera, dove la vita erompe delicata, continua, perseverante. Mentre attorno si allargano il buio e il deserto, primavera e fuoco sono per Lippi una veglia dolce e impaziente.

di Alessandro Beltrami