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La voce del Golgota

La poesia e la letteratura stanno fin dall’origine ai piedi della croce. Sfida delle sfide è dare la parola ai testimoni. Luzi la diede al condannato

​La scena della croce, magnetica ed enigmatica, attraversa la poesia e la letteratura. Sul luogo detto Golgota gli sguardi, le parole, i versi tornano. Attratti dalla scena della morte di Dio, unica scena della storia in cui un Dio adorato come unico, non uno tra gli dei, conosce umanamente il dolore e lo strazio della morte.
Sarebbe lungo e freddo un elenco di nomi e citazioni che presumesse di riassumere un parziale regesto di autori e passi. Basti dire che potremmo porre ai due capi opposti di questo spettro dei modi di confrontarsi con la scena della croce da un lato il grido di un teatrante contemporaneo come Romeo Castellucci contro il volto dell’Agnello di Dio, e dall’altro i simpatici e profondi colloqui di don Camillo in Guareschi, passando per l’accorata difesa della esposizione pubblica del crocefisso che fece Natalia Ginzburg su “L’Unità” dell’ottobre 1988.
Il fatto è che la letteratura prosegue la scena che avvenne e sempre avviene sul Golgota. Ci sono poeti che danno voce ancora al ladrone, dal fondo di una sperdutezza non orgogliosa, altri scrittori invece che sogghignano con il riso folle di Nietzsche irridendo la divinità e la morte così infima di Cristo. Ci sono poeti che danno spazio al silenzio nelle loro parole come il terzetto misterioso di Maria, Giovanni e Maddalena ai piedi della croce.
Ci sono quelli invece che preferiscono vociare come i soldati romani, coprendo il disagio. E chi, infine, come il centurione, lascia che quel disagio si faccia largo, diventando uno strano stupore, un magone, una domanda.
La scena della croce comporta uno strano disagio. Perché è una scena risaputa e scarna. Dove i gesti sono elementari e potenti: le cadute, le frustate, il volto insanguinato che si imprime, i chiodi, l’aceto. Gesti elementari, a cui difficilmente nuove parole possono aggiungere alcunché. E poi le parole, poche, micidiali, del Dio condannato e sofferente. Come una pietra scabra, refrattaria, su cui altre parole – qualsiasi parola – sembrano mancare l’appiglio, restare ombra di ombra. Ballerine di terza o quarta fila. Così da indurre pudore nell’accostare la propria voce a quella scena o, ugualmente, nel tentare uno spudorato accostamento, coscienti d’essere spudorati e perciò definitivamente umiliati.
Quei gesti e quelle parole sono infinitamente commentabili e infinitamente sfuggenti, da inseguire all’infinito. Come se proprio quella scena – del Verbo fino al grado più povero e orrido della discesa incarnante – obbligasse la letteratura e ogni poesia che presume di venir prima della vita, di esser fondamento della visione reale, a riconoscere che la visione del senso del mondo non nasce dalle parole o dalla creazione delle parole, ma da un evento, da una scena che dà senso alle scene.

di Davide Rondoni