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La gioia forgiata dal dolore

Molti hanno cantato la maternità: ma tutti dimenticano la fatica e la paura, provate anche da Maria

​Maternità. Quali immagini si risvegliano in noi davanti a questa (ahimé spesso abusata) parola?
Generosità, calore, condivisione, protezione? O anche inadeguatezza di fronte a una situazione nuova, paura del parto e delle trasformazioni fisiche che una gravidanza comporta, di una giovinezza che sfiorisce, dell’ingrassare, del dover dividere l’amore? Sensi di colpa – o un senso di sfida verso quella narrazione un po’ artificiale che vede nel diventare madre il momento, per la donna, di un’emozione così forte e nuova che non è pari a nessun’altra? Cosa lega, infine, al di là di ogni retorica, una donna che ha partorito al frutto del suo ventre, la creatura che il suo corpo e le sue vene hanno cresciuto e nutrito fino alla realizzazione di un essere umano compiuto e autonomo? E non sentire questa emozione primaria fa di te una cattiva madre?
Questa e altre vaghe riflessioni mi passavano per la mente mentre sfogliavo un delizioso piccolo libro dedicato al Natale in poesia, un’antologia di poeti che lungo i secoli si sono confrontati con il mistero e la gloria del Natale (Natale in poesia. Antologia dal IV al XX secolo, Interlinea). Molte cose belle, molti versi affascinanti; ma appunto si parla molto del Bambino – appena nato e pure già Dio, che vagisce in una capanna riscaldato soltanto dal bue e dall’asinello –, degli angeli e dei pastori, poco della Madre, e pressoché niente del fatto che ha davvero appena partorito, che la sua maternità trionfante e pietosa è passata attraverso la reale sofferenza fisica del dare alla luce una creatura.
Solo due voci, fra le più antiche della raccolta, quelle di sant’Ambrogio e di un anonimo del XIV secolo, raccontano veramente di lei, della sua carne che accolse il Verbo. Scrive Ambrogio: «Volgiti a noi, tu che guidi Israele. / […] O redentore dei popoli, vieni, / della Vergine rivelaci il parto: / […] non nasce da seme di creatura, / ma per arcano soffio dello Spirito, / il Verbo di Dio si fece carne / e germogliò come frutto d’un grembo». E allora subito mi sono tornati in mente, con un’improvvisa luce abbagliante, i versi incredibili, di sconcertante modernità, che – all’inizio dell’ultimo canto del Paradiso – Dante dedica a ciò che avvenne “dentro” Maria durante la sua gravidanza: «Nel ventre tuo si raccese l’amore / per lo cui caldo nell’eterna pace / così è germinato questo fiore». Lui l’ha vista come una giovane donna incinta, il cui ventre si dilata perché dentro vi arde una fiamma, al cui calore cresce un bambino, che è insieme parte di lei e altro da lei: ma è lei la fonte della vita, e la sua bellezza è magnifica, regale («In te misericordia, in te pietate / in te magnificenza, in te s’aduna / quantunque in creatura è di bontade»).
 
di Antonia Arslan