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La bellezza è una Marca Trevigiana

Città e colli. Fiumi e vigneti. Palladio e Canova. Viaggio nel territorio veneto dai molti cuori

​Federico Geremei
Dove finisce, esattamente, la Marca? Quanto vicino si può andare sotto ai monti friulani a saggiarne i versanti trevigiani e farne un limite interno? E quale distanza si deve tenere da Venezia per serbarne l’aura originaria, però differita? Questa terra ha avuto bordi mobili, nobili incastri ne hanno ridisegnato il perimetro e segnato l’identità. La geometria dei marchesati veneti s’è annacquata nei secoli, quella doppia etichetta di landa “gioiosa” e “amorosa” non s’è tuttavia mai scollata del tutto.
Voltiamo dunque la nuca a Venezia, ché la grandeur dell’entroterra deve molto alla Serenissima – cui s’è di fatto “consegnata” senza venire soggiogata – ma non può esaurirsi in un prisma di riflessi all’ombra dei dogi. E partiamo da Treviso, per lasciarla però subito. Il primo affresco, forse la prima raffigurazione in assoluto, a ritrarre una figura umana con occhiali pare sia quello dipinto alla metà del Trecento da Tommaso da Modena. Campeggia su una parete della sala del capitolo dei domenicani, il volto è quello di Ugo di Provenza ed è in compagnia, tra gli altri, di un altro cardinale: Ugo de Billon con una sorta di pennino temperato.
Prendiamo le mosse da quelle effigi e dai rispettivi strumenti – di lettura, rilettura e scrittura – e puntiamo decisi verso ponente, verso il confine con l’altro Veneto. Dal capoluogo a Castelfranco ci sono soltanto trenta chilometri, i venti minuti di strada vanno ritoccati parecchio, piegando quel segmento rettilineo d’asfalto nella geometria della Rotonda di Badoere, per una prima incursione nel tetris delle barchesse: strutture integrate nei complessi agricoli, raccordano gli ambienti padronali delle ville a quelli dei braccianti, con soluzioni architettoniche elaborate ed eleganti. La Rotonda stordisce coi suoi volumi mentre invita a contemplarne dimensioni e proporzioni. Ed evoca un’opulenza sospesa, càpita a ogni singola visita (qui e nel resto della provincia). Una ciclicità di incanti che echeggia le parole di Giovanni Comisso, uno degli scrittori trevigiani più attivi del Novecento: «Se la vita degli uomini fosse abbandonata a se stessa, senza essere sorretta dall’arte, risulterebbe soltanto un movimento senza nome. I fatti, cioè tutta la vita nel suo intreccio di aspetti, passioni ed azioni non diventerebbe storia». La chiave, molto personale eppure emblematica di un modo d’essere trevigiano, è nell’ultima frase di questo suo scritto del 1945: «E per storia si deve intendere: tutte quelle forme d’arte in quanto rendono memorabili quei fatti».