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Intorno alla cupola di Brunelleschi

La cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze è stata fonte di ispirazione per visioni umanistiche, teologiche e politiche

​Timothy Verdon
La cupola della basilica di Santa Maria del Fiore a Firenze è considerata il simbolo del primo Rinascimento: è la prima espressione “post-antica” di un potenziale umano sconfinato, della capacità dell’uomo di raggiungere i confini della conoscenza.
Fu costruita da Filippo Brunelleschi (1377-1446) tra il 1418 e il 1436, a completamento del duomo iniziato nel 1296 e ancora incompiuto negli anni attorno al 1360, quando Andrea di Bonaiuto ne suggerì la forma nel noto affresco del Capitolo di Santa Maria Novella. Titanica nelle dimensioni, la cupola richiama a una grandezza spirituale in qualche modo assoluta, alla dilatazione del rapporto tra l’uomo e Dio. L’impatto della cupola sui contemporanei echeggia nelle parole del prologo del trattato Della pittura dell’umanista e architetto Leon Battista Alberti. Giunto a Firenze al seguito di papa Eugenio IV nel 1434, l’Alberti aveva assistito all’ultima fase della costruzione, e nel suo testo sentiamo l’ammirazione che la “tribuna maggiore” del duomo allora destava. L’autore trentenne aveva stretto amicizia con Brunelleschi (cui dedica la versione italiana dell’opera, chiamandolo familiarmente “Pippo”), e doveva essere al corrente della complessa vicenda umana sviluppatasi intorno alla cupola: la gelosia del collega e rivale del Brunelleschi, Lorenzo Ghiberti; le accuse di altri oppositori, come Gherardo da Prato; le liti continue e la “disperazione e amaritudine” – per citare le parole del Vasari – in cui spesso s’era trovato il Brunelleschi. Oltre all’ammirazione, infatti, cogliamo anche solidarietà nel passaggio del prologo che c’interessa: «Chi mai sì duro o sì invido», si chiede Alberti con passione, che «non lodasse Pippo architetto vedendo qui struttura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani, fatta senza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname, quale artificio certo, se io ben iudico, come a questi tempi era incredibile potersi, così forse appresso gli antichi fu non saputo né conosciuto?».
“Struttura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani…”: sono parole che ancor oggi comunicano l’impressione profondissima del momento in cui – passato l’ultimo colle e girata l’ultima curva nella strada da Roma – l’Alberti vide per la prima volta questa “montagna” creata da mano d’uomo dominare in mezzo alla pianura. Le parole esprimono anche un sentimento campanilistico: “ampla da coprire... tutti e’ popoli toscani”, dice, e sentiamo l’orgoglio dell’emigrato tornato in patria. Infatti, di famiglia fiorentina, Leon Battista era nato a Genova nel 1404, aveva studiato a Padova e a Bologna, e si era trasferito a Roma nel 1432. Nello stesso prologo parla del «lungo esilio in quale siamo noi Alberti invecchiati» prima di tornare «in questa nostra sopra l’altre ornatissima patria».