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Giro di un mondo chiamato Trasimeno

Lago senza affluenti naturali nel cuore d’Italia è uno specchio di storia, arte e spiritualità

​Facciamo come il Perugino, attivo nell’entroterra e sulle sponde del Trasimeno tra Quattrocento e Cinquecento. O, meglio, come ogni pittore rinascimentale: iniziamo dalle dimensioni. Le proporzioni, i colori e i tratti – immanenti e già “nel quadro” – arrivano in seguito. Qualche misura, dunque: è il lago italiano più esteso a sud del Po, il quarto del Belpaese, lo specchio del Garda è il doppio, quello d’Iseo la metà. Niente passerelle d’artista su segmenti flottanti ma un primo grand tour lungo le rive che ne srotolano il profilo tondeggiante, una linea che inganna: non c’è nessuna caldera a testimoniare magma sopito sotto la superficie. I cinquantatré chilometri del perimetro cingono un bacino “laminare”, così dicono i geologi. È un disco grande come il comune di Napoli e atterrato in Umbria, tra Assisi e Siena, con le frange di canne e di gigli acquatici. Lì dove i confini regionali sbiadiscono tra lecci, roveri e ulivi e si sovrappongono a quelli tra Stato Pontificio e Granducato di Toscana.
Giada, celeste opaco, argento brillante e lampi di blu. La tavolozza del Trasimeno miscela, capricciosa e ineffabile, i toni di acque bassissime: cinque metri appena. È una massa liquida senza emissari o immissari naturali, e così è la pioggia a determinare le sorti di chi ci vive e ne vive. Gli annali raccontano di tentativi per creare canali artificiali in ingresso e in uscita: grandi gli sforzi, vari (ed eventuali) i risultati. Probabilmente ci hanno provato i romani, ci si sarebbero cimentati Leonardo da Vinci (il progetto è rimasto un’idea) e Sisto V, come nelle paludi pontine. Nel periodo in cui ha retto il Soglio di Pietro – un solo lustro, segnato da fervore urbanistico senza precedenti – non ha soltanto fatto erigere obelischi e affrescare cappelle, realizzare palazzi e disegnare vie. S’è speso per far sì che l’acqua dal Trasimeno fluisse al vicino lago di Chiusi. Ed è morto, pare, di malaria, la piaga che ha segnato il lago per decenni e animato gli intenti di chi voleva prosciugarlo una volta per tutte nella seconda metà dell’Ottocento. Non ha però fatto la fine della Piana del Fucino, oggi è ancora vivo e liquido ma in allerta continua sui livelli delle acque

di Federico Geremei