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Giovanni Bellini, un pittore senza inverni

La pala di San Zaccaria, dipinta in tarda età, è la summa dell’opera di un artista “sempreverde”

​Antonio Paolucci

 

Bisogna avere in mente il Longhi di Viatico per cinque secoli di pittura veneziana del 1946, quando sostiamo di fronte alla pala firmata “Joannes Bellinus” e data al 1505, collocata sulla parete sinistra all’interno della chiesa veneziana di San Zaccaria, non lontano da San Marco.
Nel 1505 Giovanni Bellini ha più di settant’anni. Non ci è nota la data della sua nascita, sappiamo però che morì nel 1516. Il cronista veneziano Marin Sanudo registra l’evento nel suo diario con questo elogio funebre: «optimo pintor la cui fama è nota in tutto il mondo et cussi vecchio come l’era, dipinzeva per excellentia».
Dieci anni prima, nel 1506, Albrecht Dürer, a Venezia in occasione del suo secondo viaggio italiano, scrivendo all’amico Willibald Pirckheimer a Norimberga, affermava essere Giovanni Bellini molto vecchio ma ancora il migliore nell’arte della pittura sulla piazza di Venezia. Un giudizio come questo da parte di un artista della levatura di Dürer, è il riconoscimento oggettivamente più alto e veritiero che mai sia stato fatto alla fase ultima della pittura belliniana.
La pala di San Zaccaria, di fronte a noi nel rosso fiammante che incendia la veste del san Girolamo, trema di luce diffusa e di ombre leggere nello spazio architettonico che la ospita. È la sintesi, è l’ultimo fiore di un percorso artistico glorioso che attraversa poco meno di un secolo e che Roberto Longhi così riassume: «[Bellini] uomo di meditazioni instancabili, mai pago di evocare l’antico, di intendere il nuovo e di provarli, egli fu tutto quel che si dice: prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin giorgionesco. Eppure sempre lui: caldo sangue, alito accorato accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia e il manto della natura».
Giovanni Bellini è il patriarca della pittura veneziana dei grandi secoli. È lui che, nel confronto del colore con la luce, ha offerto il codice primario ai grandi maestri venuti dopo di lui, da Tiziano a Paolo Veronese a Tiepolo. Prima di Longhi nessuno lo aveva inteso meglio di Marco Boschini che, nella sua Carta del navegar pitoresco (Venezia, 1660), poemetto scritto in sapida lingua lagunare, così si esprime:

Co i so’ colori
è stà il primo a formar pitura viva
Zambelin se puol dir la primavera
del mondo tuto, in ato de Pitura:
perché da lu deriva ogni verdura
e senza lu l’arte un inverno giera.

La pittura di Giovanni Bellini come primavera dell’arte che scioglie il gelido inverno della tradizione mantegnesca-padovana e chiama il colore a confrontarsi con la luce. Così il Boschini e non si poteva dire meglio.