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Genti d’Afghanistan

La grande fotografa polacca racconta i suoi viaggi senza scorta nella terra delle tante etnie e delle luci nascoste

​Il burqa da solo non basta per attraversare le gole di Nahrin, infestate da banditi. Se venissi scoperta sarebbero guai anche per gli afghani che viaggiano con me. L’accesso alle valli Khost wa Firing è terreno di agguati, dove la polizia non entra e nemmeno l’esercito. Nessuno si azzarda in mezzo a predoni e faide tribali il cui inizio è perso nel tempo. Il burqa non basta, dicevo. Ci vuole altro. Portamento, gesti, andatura. Dentro il mio sacco di nylon azzurro, incollato dal sudore, ricapitolo la lezione che mi hanno dato le donne prima di partire, ridendo delle altre straniere che ci hanno provato. «Vi si vede a un chilometro – dicevano – avete un altro corpo». Anche per questo mi hanno dipinto le mani con disegni di hennè e mi hanno infilato scarpette dorate di plastica. Complici, mi preparano come per una festa di matrimonio, unica occasione che mi consentirebbe di sdoganare la Leica nascosta, se venisse scoperta.
Le regole dunque: tacere, chinare il capo, intrecciare le falde del mantello, rimpicciolire, pietrificarsi. Abbigliamento luccicante da contadina, pantaloni psichedelici con paillettes, borsetta con soldi pronti in caso di rapina, documenti nascosti, cuciti nella tappezzeria della macchina. Soprattutto, ricordarsi che la grata del burqa, così stretta, è fatta per svelare dove guardi, e quindi le tue paure. Ogni minima cosa è sintomo, codice, segno......
 
 di Monika Bulaj