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Fuoco, il grande elemento purificatore

Comune a tutte le culture, dal Mediterraneo alla Mongolia, il fuoco separa cielo e terra. Simbolo privo di una lettura univoca può liberare o distruggere, ma appartiene sempre alla sfera del divino

​di Franco Cardini

Il fuoco può raffinare e liberare dalle impurità – concetto che si rende in italiano con il verbo “purificare”, dal sanscrito pur e dal greco pyr, “fuoco” –, oppure consumare e distruggere. Da qui la sua profonda bipolarità sul piano della simbolica religiosa: esso può assurgere a simbolo di alta positività o di temibile negatività. Data la sua natura uranica (confermata anche dal fatto che il fuoco sotterraneo scaturisce soprattutto dai vulcani – parola proveniente dal sanscrito ulkà, “incendio” –, quindi da montagne, luoghi per loro natura vicini al cielo e partecipanti alla sua sacralità), il fuoco viene associato in molti sistemi mitico-simbolici al sole, alle stelle, al cielo e ai suoi abitanti (gli angeli o gli uccelli: comunque le creature alate).
Nel mito di Prometeo il fuoco appartiene agli dèi: e l’eroe civilizzatore, donandolo agli uomini, commette un’infrazione duramente punita. Ai primordi dell’umanità, il fuoco risultava il più lontano e inaccessibile tra gli elementi all’interno del sistema biosferico dell’uomo, fatto di terra, aria, acqua: scendeva dal cielo con i meteoriti e i fulmini, saliva dalle profondità della terra con la lava dei vulcani. Tendendo sempre a salire verso l’alto – tra gli elementi empedoclei il fuoco è quello che si situa nella sfera superiore –, era il più adatto a rappresentare il ganz Anderes, quel “del tutto altro” nel quale – secondo Rudolf Otto – consiste il Sacro secondo l’esperienza umana. Nell’àmbito della cultura prometeica, quella dell’homo faber, il fuoco (in quanto elemento per eccellenza connesso alla dimensione del Sacro-Divino) può essere riprodotto mediante una tecnica demiurgica (eritis sicut dei) fondata sui due gesti della percussione e dello sfregamento, entrambi fondamentali – ma con differente significato – nel rito. È stata proposta la tesi che la cremazione-incinerazione corrisponda a originarie credenze in una parte dell’uomo eterna, trascendente, di natura uranica e destinata a tornare al cielo: quindi all’idea dell’immortalità di un’essenza spirituale (la parola latina spiritus si collega al sanscrito pur); mentre nella cultura degli inumatori si aderirebbe invece a idee connesse con i riti di fertilità e di morte-rinascita della materia (il termine ebraico nephesh qualifica l’essenza della vita come forza fisica e materiale connessa col sangue, con la carne, con la terra). Resta rischiosa la dicotomia strutturale – anch’essa da alcuni proposta – fra originarie forme culturali nomadiche, legate a sistemi mitico-religiosi incentrati sul fuoco e la cremazione, e forme culturali agrarie e sedentarie, connesse con l’inumazione. Senza dubbio, tuttavia, il rapporto biblico fra Abele (il pastore, il fumo del cui sacrificio va verso l’alto) e Caino (il contadino) trova un parallelo e un rovesciamento nel mito romano di Romolo e Remo (dove il ruolo di profanatore spetta al “nomade” Remo, che disprezza i confini: ma quello dell’omicida viene comunque attribuito al sedentario-agricoltore Romolo, uomo dell’aratro e delle città al pari dei discendenti di Caino, fondatori dei centri urbani e inventori della tecnologia).
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