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Fulvio Roiter, fotografia è destino

Venezia rende omaggio a uno dei suoi grandi interpreti: il racconto del mondo attraverso la costante ricerca dei contrasti

​All’inizio c’è un albero in un ventoso mattino di marzo. Fulvio Roiter ha 23 anni, sta percorrendo in bicicletta la strada che da Mèolo, paesino nell’entroterra veneziano, porta al Piave. «M’accorsi di quel platano dalla corteccia bianca, come calcinata – avrebbe raccontato quarant’anni dopo – che sembrava una croce. Anche la strada era bianca, polverosa, piena di sassi e di buche». Esplode la voglia di fotografarlo, quel platano bianco e secco contro il cielo e la cortina di piante alle spalle: eccolo tornare con «la vecchia Tenax a soffietto 6x9, quel simulacro di treppiede che possedevo e in pochi minuti raggiunsi la grande “croce” bianca. Per fotografarla bene dovetti quasi “sparire” nel profondo fossato che correva parallelo alla strada rischiando a ogni movimento brusco di finire nell’acqua che scorreva sotto, vicinissima». Quella foto un anno dopo viene esposta all’Accademia di Brera, nella grande Mostra della Fotografia Europea. «Ancor oggi quando l’occasione mi porta a percorrere quel tratto di strada, memoria ed emozione mi gonfiano il cuore. Quella strada e quel platano bianco a forma di croce hanno segnato il mio destino di fotografo».
Fulvio Roiter avrebbe interpretato ciò che vedeva in migliaia di fotografie. Ma non sarebbe cambiato quel «bianco e nero aspro, contrastato, ruvido. Un desiderio di raccontare il mondo attraverso un attrito costante, senza mediazioni e senza menzogne», come spiega Denis Curti, curatore della mostra ai Tre Oci, importante spazio veneziano dedicato alla fotografia. Presto avrebbe anche lavorato con il colore (sebbene senza raggiungere i vertici del bianco e nero) ma, diceva Roiter, considerando «da sempre il bianco e nero come il solo metro con cui giudicare un fotografo. Al colore si può arrivare per caso o per calcolo, al bianco e nero no. Dietro una grande immagine a colori ci sarà sempre l’esperienza accumulata nell’esercizio del bianco e nero».

di Alessandro Beltrami