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Argentina, mondo capovolto

Se Buenos Aires è città dove ogni orizzonte è possibile, la nazione è un sogno inafferrabile in cui un ballo diventa visione e una bevanda una filosofia di vita

grande pianura nelle solitudini di Casabindo, all’estremo nord del Paese. Questa terra è la Puna, gli altopiani di alta quota delle Ande meridionali.

grande pianura nelle solitudini di Casabindo, all’estremo nord del Paese. Questa terra è la Puna, gli altopiani di alta quota delle Ande meridionali.

​Non so come orientarmi nel labirinto di Buenos Aires. Non so aiutarvi, non so darvi consigli. E poi manco da troppo tempo. A chi dar retta? A Jorge Luis Borges? Tornò nella sua città dopo una lunga assenza: «Questa città che io credevo il mio passato, è il mio avvenire, il mio presente, / gli anni che ho vissuto in Europa sono stati illusori, io ero sempre (e sarò) in Buenos Aires». E ancora: «È una bugia pensare che Buenos Aires abbia avuto un inizio: io la considero eterna. Come l’acqua o l’aria». Borges non ha la supponenza dello storico ed erudito Héctor Sáenz: «Buenos Aires è stata accusata di vivere ignorando il resto dell’America spagnola. Ma come poteva vivere altrimenti il suo abitante, il porteño?». Una volta tanto non sono d’accordo con Ernesto Che Guevara: a lui, giovane innamorato delle solitudini andine o degli orizzonti grigi dell’oceano, la capitale argentina non piaceva: «Buenos Aires ogni volta mi appare sempre più noiosa». Strano, è città da insonni ed Ernesto amava il disordine della gioventù... È bene, dunque, tornare a Borges: è lui a inventarsi, per la sua città, uno strano aggettivo: “Innumerevole”. Una città che ne contiene altre, che, per di più, fra loro, sono inconciliabili.

Gli scrittori passeggiano, guardano, entrano nei bar e descrivono città diverse, diversissime. Come se non vivessero nelle stesse strade. Borges ha nostalgia dei quartieri di Palermo, Villa Ortúzar, Almagro e Saavedra. Quartieri dai cortili con le pergole d’uva, periferia scomparsa se non sai dove cercarla. Borges non vede i grattacieli, i viali interminabili, il traffico feroce, le villas miseria, le bidonville delle periferie. Julio Cortázar, ostico e meraviglioso scrittore, non ha mai dimenticato Buenos Aires, ma, per lui, è una città ambigua, misteriosa, a volte ostile, una città notturna e scura dall’odore di «borotalco bagnato sulla pelle» e «frutta marcia».

Ernesto Sábato, il più grande fra gli scrittori, intreccia orizzonti fino a confonderli. Una città può essere la linea impercettibile fra cielo e mare? C’è il mare a Buenos Aires? A volte, alla Boca, a esempio, ho creduto di sì. Certamente ci stanno le onde. Ma Sábato ingarbuglia la matassa della città. Nelle sue pagine, Buenos Aires è tumultuosa e accecante. Io ritrovo un appunto (spero che sia mio, che non l’abbia copiato) su di un vecchio taccuino; Buenos Aires, primo passo in Argentina, mi apparve bellissima e minacciosa (le città inconciliabili) e allora scrissi: «Che fortuna crescere qui dove la malinconia è una virtù e l’incertezza una compagna indelebile».

di Andrea Semplici